Articolo di Ariel Filloy
Supervisione di Donatello Viggiano
Immagine copertina di Emanuele Venturoli

 

 

Mio padre German un 2.03 che sapeva giocare anche sotto canestro, i miei fratelli Juan e Pablo guardia e ala, Demian, in Italia, sarebbe diventato un’ala forte. Era chiaro che per chiudere il quintetto della mia famiglia servisse un playmaker ed è per questo che l’11 Marzo 1987, a Cordoba, sono nato io.

Come tutti ho iniziato a giocare nell’Atenas, la squadra più importante della città, per poi cambiarne qualcuna, seguendo la carriera da professionista di papà. In Argentina, però, non è come in Italia, esistono le polisportive e io e i miei fratelli potevamo passare ore e ore a giocare, in attesa che papà finisse di allenarsi, anche se a volte si dimenticava anche di venirci a prendere. Gli ultimi anni vissuti in Argentina, per un periodo, abbiamo abitato a casa di mio nonno che pranzava sempre all’una e se non fossimo stati lì puntuali a quell’ora, non ci avrebbe fatto mangiare. Allora, spesso, quando andavamo di mattina a giocare nella polisportiva, chiedevamo alla segretaria di avvisarci all’una meno dieci: pazienza se il 3 vs 3 non era ancora finito, dovevamo scappare a casa per il pranzo, anche tra gli insulti dei compagni, dovevamo scappare a casa per il pranzo dal nonno!

Giocavo con i miei fratelli spesso anche a casa, una volta mi avevano regalato un pallone, ma mentre stavamo giocando, abbiamo iniziato a litigare tra noi, e dissi a Demian (fino alla scorsa stagione in Italia a Trapani) che non avrebbe più giocato, perché il pallone era mio. Tirò un calcio che fece arrivare il mio pallone cinque case più in là: non l’abbiamo mai più trovato.

A 15 anni, invece, il cambiamento più grande. Non più da una città all’altra dell’Argentina, stavolta. Il nostro paese viveva un momento di crisi, e allora la mia famiglia decise di trasferirsi in Italia: i miei fratelli erano già lì, a Porto Torres (a due passi da Sassari, in B) e io li ho raggiunti con i miei genitori… E’ stata una grande fortuna, perché in molti, così giovani, partono dall’Argentina come da altri paesi per tentare la carriera da professionisti, ma io ho potuto farlo restando al fianco della mia famiglia, è stato come se non fosse cambiato nulla.

La mia famiglia al completo.

I miei fratelli, tutti nella stessa squadra, quell’anno vinsero il campionato di Serie B2 e dopo una lunga discussione a tavola con mio padre, lo convinsero che anche io potessi andare a festeggiare con loro in discoteca. A fine serata, diciamo pure alle nove del mattino, però, dopo una rissa nel locale, trovammo la macchina senza parabrezza e finestrini: ce li avevano rotti a sassate. Eravamo tutti d’accordo che, rientrando a casa, avremmo detto a mio padre che l’avevamo trovata direttamente così nel parcheggio ma, mentre facevano colazione, lui vide la macchina dal balcone e chiamò mio fratello Pablo, che senza dirmi niente, gli raccontò la verità. A mezzogiorno papà venne a svegliarmi per il pranzo e mi chiese cosa fosse successo, allora io, memore degli accordi presi con i miei fratelli, ma senza sapere che mio padre sapesse già tutto, dissi serio: “Niente, abbiamo trovato così la macchina nel parcheggio”, e presi un buffetto dietro la testa per la bugia. I miei fratelli scoppiarono a ridere, mentre io li guardavo pieno di rabbia. Allora Pablo mi disse: “Io non ce l’ho fatta a tenere il segreto, ma tu sei stato un grande!”.

Tornando al nostro trasferimento, non potevo sapere che arrivare in Italia così presto mi avrebbe permesso, grazie ai nonni, di acquisire la cittadinanza italiana e poter, un domani, giocare in Nazionale senza limiti. Quest’estate, lo sapete, durante la preparazione agli Europei c’era il rischio che solo uno tra Burns, Abass e Paul Biligha potesse essere convocato, ma fortunatamente la situazione si è risolta.

Io ero in camera con Paul, lui e Abi sono nati in Italia (da genitori stranieri, ndr), sono ragazzi perfettamente integrati nella comunità e hanno disputato tutte le categorie giovanili, quindi non vedo perché non potessero giocare con la Nazionale, quando molte naturalizzano giocatori che non parlano nemmeno la lingua, mentre loro hanno dovuto sempre subire queste limitazioni anche nel percorso giovanile.

Già, la Nazionale.

Un’emozione unica anche per chi ha giocato tante partite a questi livelli, figuriamoci per me che lo facevo per la prima volta. Ogni volta che indossi la maglia del tuo paese penso sia una grande emozione e responsabilità, c’è un po’ di tensione, ma per fortuna, segnando i primi tiri, ho preso la giusta carica per continuare a giocare in quel modo. Poi Ettore mi ha dato tanta fiducia, i compagni anche: è stata davvero una super esperienza.

foto www.fip.it

Sono molto contento anche di aver giocato le due partite di qualificazione. Il Mondiale è un obiettivo importante, so che all’Italia manca da tempo, e sono sicuro che nelle prossime finestre di qualificazione giocheremo anche meglio e alzeremo il nostro livello. A Torino avevamo alle spalle solo tre allenamenti, peraltro con un allenatore nuovo, e per molti era la prima partita, ma questo nuovo sistema non mi dispiace. La Nazionale ti dà sempre carica e fiducia, oltre che l’affetto della gente, e poi in questo modo si dà la possibilità a tanti nuovi giocatori, magari meno conosciuti, ma che stanno facendo bene, di vivere questa esperienza e allargare la base del movimento. Il Mondiale è un obiettivo importante, eh sì… Ho pensato anche all’eventualità che se dovessimo incrociare l’Argentina, significherebbe due buone notizie: l’Italia ai Mondiali e io convocato. Ma la strada è ancora molto lunga…

foto www.fip.it

La Generaciòn Dorada, però, resta qualcosa di irripetibile per una serie di motivi. In Argentina ce n’erano stati, anche in passato, di giocatori così talentuosi, ma mai capaci di mettersi a disposizione l’uno dell’altro, pur essendo molti di loro di livello NBA, in nome e per la Nazione, così come hanno saputo fare loro: hanno trasmesso al popolo argentino un senso di appartenenza, emozione e passione molto forte, senza mai abbassare la guardia. E’ vero, proprio come dice il coro: es un sentimiento, no lo puedo paràr!

AP Photo/Michael Conroy

Cominciò tutto nel 2002, quando El Alma arrivò fino alla finale del mondiale di Indianapolis, poi perso – anche per l’infortunio di Ginobili – contro la Jugoslavia. Era un periodo molto complesso per il paese e fu importante affezionarsi al cammino di questa squadra, ma nessuno poteva immaginare che due anni dopo, alle Olimpiadi, potessero fare ancora meglio. Ora il ciclo è finito, ma guardate Scola: a 40 anni, invece che riposare due – tre giorni in più, è tornato dalla Cina per giocare una semplice partita di qualificazione ai mondiali contro il Paraguay, era difficile che potesse avere ancora questi stimoli, eppure non si è tirato indietro di fronte a ore ed ore di aereo, per giocare una partita nemmeno così difficile. Prima del 2019, comunque, ci sarà anche un altro Mondiale, quello di calcio ovviamente, e la Nazionale viene dalla finale persa con la Germania nel 2014. Questa qualificazione è arrivata con grande sofferenza, ma ora, dopo aver cambiato tanti allenatori, penso che prima della Coppa ci sarà un po’ di tempo per preparare la squadra. C’è tanto talento, Messi è il più forte giocatore in questo momento, ma la squadra non è solo una somma delle singole qualità, servono gli equilibri giusti e che ognuno sia in grado di dare un contributo utile e diverso al risultato finale.

E’ quello che succede anche nella carriera di un giocatore: sono necessarie tante qualità, fisiche, tecniche e morali, per poter arrivare e confermarsi ad alti livelli. Si gioca in 5, 10, 12, ma non tutti possono essere talentuosi, nelle squadre ci vogliono anche altri ruoli, quello che dà equilibrio, quello che difende forte, quello che ha carattere. Insomma, non tutti hanno lo stesso compito, ma credo sia fondamentale possedere queste attitudini. Così nessun traguardo è precluso, anche partendo da lontano, dalle categorie minori.

Alcune delle squadre nelle quali ho militato in Italia.

Pensate alla finale scudetto dello scorso anno, Trento vs Venezia, contro di me c’era Toto Forray, abbiamo giocato tante volte contro in questi anni ed entrambi siamo partiti dalla C2 italiana, ma non solo perché i regolamenti lo imponevano (all’epoca era necessario partecipare a due anni di campionati giovanili per acquisire la “formazione” italiana, nel frattempo si poteva giocare, da stranieri, in A o in C2…).

foto www.lavocedeltrentino.it

Infatti ho creduto che ogni tappa fosse importante per crescere, acquisire minuti ed esperienza: abbiamo fatto dei percorsi diversi, lui è a Trento da tanto tempo, mentre io ho cambiato più di qualche squadra in prestito, ma ho giocato anche la C2 in Sardegna e a Rimini, e la B2 a Rovereto proprio perché credevo fosse utile a farmi crescere e migliorare a 16-17 anni. Vuol dire che il merito, alla fine viene sempre premiato, a prescindere da dove un giocatore provenga. E la vittoria dello Scudetto è stato qualcosa di incredibile.

Qui in Italia si vive molto bene e forse si è un po’ meno abituati a guadagnarsi le cose con fatica, invece in Argentina non tutte le famiglie possono garantire ai giovani un futuro sicuro, quindi molti vedono nel basket, o nello sport in generale, un lavoro, e alla prima possibilità partono, pronti a cogliere un’opportunità che significa migliorare la propria vita: non tutti ci arrivano, chiaro, ma spesso ci riescono, consapevoli che serva più sforzo e sacrificio per emergere.

Ora ho 30 anni, sono soddisfatto della mia carriera, ma punto sempre a migliorarmi, vivendo bene e curando la parte fisica, concentrato su Avellino e senza guardare troppo avanti. In campionato siamo secondi dopo aver battuto anche Milano e Venezia, e vinto di nuovo contro il Besiktas in Coppa.

Ultimamente abbiamo segnato tanti canestri allo scadere, che fosse della partita o dei 24”, io a Milano, Rich contro Venezia, Scrubb contro i turchi, e questo vuol dire solo una cosa: che non diamo mai una partita per persa finché non è finita e stiamo sempre concentrati, poi il canestro può entrare e uscire, ma questa è la giusta mentalità, secondo me. E poi con i lanci che sta facendo Martino a tutto campo, conviene sempre stare pronti, sono cose che vengono al momento, basta capirsi un attimo con lo sguardo, uno lancia la palla, l’altro parte cercando il miglior tiro possibile, sempre cercando di fare canestro.

Poi, in famiglia, eravamo già abituati a canestri del genere: guardate mio fratello Pablo nel 2009…

Ad Avellino non pensavo facesse così freddo, ma per fortuna il mare è a mezz’ora e i tifosi ci riscaldano con il loro calore e la loro passione. Poi, fuori dal campo, sono abbastanza tranquillo, conduco una vita normalissima anche perché il basket riempie quasi totalmente la mia vita e quando ho del tempo libero ne approfitto per rilassarmi, leggere, e riposare. Amo bere il mate soprattutto in compagnia, con i miei compagni e soprattutto mi piace cucinare: sono sempre pronto anche a preparare l’asado per gli amici!

Questo sono io. Un normalissimo ragazzo venuto dall’Argentina, cresciuto in una famiglia numerosa a pane e basket,   che per tutta la vita ha inseguito un sogno. Un sogno a forma di palla a spicchi.

 

Ariel

 

Foto www.sportavellino.it
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