scritto da Davide Romeo
Ho in mente un teorema, un assioma: ogni giocatore di basket sotto il metro e ottantacinque, nei più profondi abissi del suo subconscio, sogna di essere come lui.
Sogna quel crossover letale come una cartella esattoriale inaspettata di Equitalia; quelle caviglie più potenti di un assolo di Angus Young in Let There Be Rock dopo la prima ora di concerto; quella grinta concettuale in difesa che gli avrebbe permesso di rubare un’intera diligenza, purché si fosse trovata sulla sua linea di passaggio; quei momenti in cui decideva di prendersi la squadra in spalla e cercare l’uomo libero solo per farsi passare una Gatorade; quella attitude che lo rendeva una via di mezzo tra uno Stone Cold Steve Austin edulcorato e un Tupac Shakur più cupo.
Di chi sto parlando? Well, if you don’t know The Answer, you are very bad people.
Atto I
Se non avete mai visto giocare Allen Iverson, è difficile descrivere e capire l’impatto che aveva in campo, e ancora più difficile fare paragoni per rendere l’idea.
Alcuni quest’anno lo hanno rievocato in presunte similitudini con Stephen Curry, ma è come accostare il diavolo e l’acquasanta.
Se il ball handling di Steph è fluida poesia in movimento, quello di Iverson era deliberata superiorità sull’avversario, frutto delle migliaia di ore passate sui peggiori campacci di Hampton, Virginia, dove ogni isolamento era l’equivalente moderno di un duello rusticano, e quando si trattava di Iverson spesso diventava un semplice stupro tecnico-sportivo.
Potrei scrivere chi, per me, è oggi quello più simile a lui, ma sento già il rumoreggiare di tremila tastiere in lontananza e quindi non lo dico. Tiè.
E dire che all’inizio il nostro Allen non voleva sentirla neanche nominare, la pallacanestro.
La sua grande passione, da giovine, era il football, un mix di strategia e viulenza che ben si adattava alla sua personalità: era tifosissimo dei Dallas Cowboys, giocava ovviamente da quaterback, in cabina di regia – perché potete immaginare che se la cavasse benino con la palla (seppur ovale) in mano – e già allora non aveva paura di prendersi contatti né di regalare all’avversario qualche amichevole placcaggio ben assestato in zona diaframma – pancreas -.
Sua madre, Ann, come da tradizione delle mamme NBA, era stata messa incinta a quindici anni da un tale che, alla notizia che sarebbe diventato padre, fuggì così velocemente che gli furono assegnati due bronzi ad honorem nella 3000 siepi e nei 100m ad ostacoli alle Olimpiadi di Montréal dell’anno successivo.
Se c’è un modo per maturare di colpo, è essere sedotti, abbandonati e partorire Allen Iverson.
Non provateci a casa però.
Ann Iverson dovette infatti farsi forza e affrontare le difficoltà di essere una ragazza madre in grave difficoltà economica, trovando per fortuna un compagno con la testa (quasi) a posto pronto a sostenerla, uno scaricatore di porto di nome Micheal Freeman.
Ann e Micheal erano convinti che, per quanto Allen forse bravo nel football, la pallacanestro avrebbe potuto davvero essere la sua strada.
Il ragazzo però non era d’accordo: per lui, abituato com’era ai placcaggi, il basket era “soft” come un cuscino, un peluche o Dwight Howard. Quando alla fine lo trascinarono al campetto pianse come un vitello ma, complice la presenza di molti suoi amici, il giochetto della palla e del cesto alla fine gli piacque.
Il football però rimase ancora la sua priorità, e furono la palla ovale e un provvidenziale ragazzone di nome Tony Clark, che si era autonominato sua guardia del corpo, a fare in modo che Allen si tenesse il più lontano possibile dalle strade più pericolose di Hampton, dalle cattive compagnie e dalla droga.
Ma spesso, quando non sei tu a cercarti problemi, sono i problemi che trovano te: in un tracollo degno di Stannis Baratheon nell’ultima serie di Game of Thrones, nel giro di poco tempo Iverson perse il suo amico Clark, ucciso dalla fidanzata, il patrigno, arrestato per spaccio, e rischiò di perdere anche la madre, che soffrì gravi problemi di salute dopo la nascita della sua seconda sorellina. Considerando che la situazione economica della famiglia Freeman-Iverson non era rosea già prima di questa serie di sfortunati eventi, è comprensibile quanto disperate fossero le circostanze.
Allen all’epoca era solo quindicenne, e pur senza essere stato sedotto, abbandonato e aver partorito se stesso, dovette maturare in fretta come aveva fatto sua madre in precedenza: decise quindi di andare a lavorare per portare il pane sulla tavola, cercando al contempo di guadagnarsi una borsa di studio per il football e approdare il prima possibile in NFL con un ricco contratto in tasca. Purtroppo questa manovra finanziaria non funzionò come avrebbe dovuto e furono sfrattati da casa durante il suo secondo anno di high school.
Si decise che Allen sarebbe rimasto a vivere con il suo coach di football per non allontanarsi troppo da scuola, mentre la sua famiglia si riorganizzava per rimanergli vicino. Nel football continuava a dominare, ma i suoi progressi nella pallacanestro erano quelli che facevano alzare le sopracciglia – e non solo – ai reclutatori del college.
Una sera del 1993 si recò ad una sala da bowling con alcuni amici: tra loro e un gruppo di ragazzotti bianchi si accese un diverbio, probabilmente sulla corretta interpretazione della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, e, come spesso accade quando si discute di filosofia, scoppiò una mezza rissa, subito sedata dai gestori del locale che avevano prontamente chiamato la polizia. A suo dire, Allen aveva subito lasciato il locale allo scoppio delle ostilità, ma fu ugualmente arrestato e trascorse la notte in prigione. Un tale affermò di averlo visto colpire una donna con una sedia, come un Triple H ante litteram.
Quando fu accusato del cosiddetto maiming by mob, ossia un reato introdotto nello stato della Virginia per impedire il linciaggio di afro-americani da parte di folle inferocite, si raggiunsero livelli di paradosso pari a uno sketch dei Monty Python scritto sotto effetto di metanfetamine.
La faccenda divenne un caso nazionale, e il processo fu molto seguito dai media: nel giugno del ’93 Iverson venne dichiarato colpevole, e condannato a cinque anni di reclusione, ma per fortuna nel dicembre dello stesso anno ricevette la grazia del Governatore, come nei film. Era però calato il sipario sulla possibilità di ottenere una borsa di studio per il football.
Oh, the umanity! Se solo avesse avuto un altro sport in cui dominava senza ritegno…
Atto II
Sarebbe stato bello vedere le facce di giocatori e staff dei Georgetown Hoyas durante il primissimo allenamento di Allen Iverson con la squadra.
Dopo il periodo nelle patrie galere aveva deciso di non tornare al liceo e finire la high school da privatista, e conseguentemente non aveva più giocato a basket in una squadra.
Primo possesso: crossover letale, supera il suo uomo e posterizza un lungo alto dieci centimetri più di lui.
Ah. Annamo bene.
Gli Hoyas, pur essendo degli habituè del torneo NCAA, non arrivavano in fondo dai tempi di Pat Ewing: tradizionalmente erano il paradiso dei big men, che allevavano e facevano pascolare liberamente sulle rive del Potomac, e avevano sfornato talenti del calibro di Mutombo, Zo Mourning e ovviamente lo stesso Ewing.
Per quanto riguarda le guardie, l’elemento più noto era Sleepy Floyd, meglio noto in Italia come “Chi?”, un playmaker una volta All Star, soprannominato così perché durante una partita di baseball fu preso a male parole dal pubblico (“Togli quello là, sta dormendo”).
Potete quindi immaginare come coach Thompson si fregò le mani quando si ritrovò in squadra il nostro Allen: lo conosceva già da tempo, tra football, basket, processi e presunte sediate a donzelle, e lo aveva accettato di buon grado quando mamma Ann glielo aveva raccomandato, ma vederlo dal vivo sicuramente lo convinse che il ragazzo era speciale.
Unico problema: non passava la palla.
Nello specifico: non passava la palla in una squadra che faceva del teamwork il suo punto di forza.
La squadra aveva onesti mestieranti in vernice (Big O Harrington, Jerome Williams), ma poi il nulla: Iverson, nel dubbio, si prendeva 18 tiri a partita, e i compagni giustamente gradivano fino a un certo punto. Certo, di sicuro apprezzavano molto l’altissima intensità che il nostro metteva in difesa, al punto da viaggiare a 3 rubate di media e essere nominato Difensore dell’Anno della Big East, ma l’attacco mancava di chimica e il gioco mancava di consistenza. Quando l’attacco girava, però, gli Hoyas erano inarrestabili.
Si potrebbe dire che la Big East di quegli anni fosse polarizzata dagli Allen.
Da un lato Allen Iverson dalla famosa Georgetown, quello sempre sugli highlights, quello con le Air Jordan, il più ammirato da tutti i coetanei per l’aggressività e la flashiness in campo.
Dall’altro Ray Allen dalla semisconosciuta Connecticut, adulto fin da giovane, con un metodicità forgiata dall’OCD – come Lionel Messi – e il più ammirato dai coach per l’ordine e l’IQ del gioco.
I due non si piacquero (e non si piaceranno) mai, ma nell’estate del 1995 ebbero l’occasione di vincere l’oro nelle Universiadi, assieme a un certo Tim Duncan, rifilando ai padroni di casa nipponici un tiratissimo 141-84 in finale.
L’anno successivo diedero spettacolo l’uno contro l’altro, con Iverson che cercava di affinare sempre più il proprio gioco: iniziava a capire quando cercare l’assist e quando prendersi il tiro, quando cercare di rubare il pallone e quando lasciare spazio all’avversario; Ogni tanto però gli scappava il quarantello ignorante, come succede a tutti.
Le sue percentuali migliorarono sensibilimente nel suo anno da sophomore, e fu a lungo in considerazione come Giocatore dell’Anno della Big East, ma alla fine la spuntò proprio Ray Allen, forse per quella finale di conference – giocata proprio contro Iverson – che meriterebbe un’articolo a sè e che si concluse così.
Dopo la prima grande sconfitta della sua carriera, Iverson decise di dichiararsi eleggibile per il Draft del 1996.
Bryant, Ray Allen, Nash, Camby, Ilgauskas, Stojakovic, Derek Fisher, Jermaine O’Neal, Abdur-Rahim, Stephon Marbury, Antoine Walker (di cui parliamo qui).
Questi sono alcuni dei nomi davanti ai quali fu scelto Iverson, con la prima chiamata assoluta, dai Philadelphia 76ers. Si diventa più bravi a pallacanestro anche solo rileggendoli, ma non cercate il nostro nell’iconica copertina di Slam (“Ready or Not, Here They Come”) perché se ne era andato la sera prima. Sigh.
La prima stagione fu abbastanza deludente in quanto a risultati, con la squadra che era composta da Iverson, Jerry Stackhouse, “Baby Barkley” Weatherspoon, Derrick Coleman e davvero poco altro.
Lo stesso Iverson fu bipolare. Per gli highlights era manna dal cielo, tra crossover e trick vari, e nonostante spesso e volentieri si prendesse dei tiracci alla J.R. Smith viaggiò a 25 punti e 7 assist di media; d’altro canto però il suo trash talking, la sua sfrontatezza e la sua aggressività erano poco apprezzati dai senatori della Lega: Sir Charles Barkley lo chiamava “Allen Me-Myself and I-verson”, e quando un certo Micheal Jordan gli disse che era meglio che mostrasse più rispetto, Iverson rispose che lui non rispettava nessuno.
Vero Micheal? VERO?
Però His Airness aveva ragione, perché quel comportamento non piaceva nemmeno ai tifosi: dopo essere stato fischiato terribilmente durante il Rookie Challenge all’All Star Weekend, Iverson decise di non aprire più bocca e concentrarsi sul gioco.
Risultato? Oltre al crossover che avete visto prima, mise a segno 40 punti o più per 5 partite durante il mese di Aprile, raggiungendo i 50 durante una di queste. Nell’anno da rookie eh, tutto nell’anno da rookie: solo Rick Barry è riuscito a segnare 50 punti in un’età così verde.
La prima stagione di Iverson si concluse in bellezza con la vittoria del Rookie Of The Year, ma c’erano ancora molti dubbi su di lui: il ragazzo aveva talento, ma il comportamento e le cattive compagnie preoccupavano. Quando Allen e dei suoi amichetti furono arrestati per possesso illegale di armi da fuoco, beccandosi tre anni di libertà vigilata, alla fine Pat Croce decise di prendere in mano la situazione.
Pat Croce era il leggendario owner dei Sixers, quello che aveva iniziato a lavorare nella franchigia fasciando le caviglie ai giocatori ed era arrivato a diventarne il proprietario, e da uomo di mondo qual era aveva capito che a Iverson occorreva una personalità forte a guidarlo: quindi fece una telefonata a coach Larry Brown, affidandogli la panchina di una squadra che veniva da due anni di sconfitte e il futuro di uno dei migliori giocatori della lega.
Atto III
Larry Brown, orfano di padre a sette anni, cacciato dall’NCAA per un pugno ad un giocatore di Duke, era più simile ad Iverson di quanto entrambi credessero, e di certo era l’uomo giusto per guidarlo verso la completa maturazione.
Appena arrivò a Philly, capì che Iverson aveva bisogno di gregari attorno, e nel corso delle due stagioni successive rivoluzionò la squadra. Via Stackhouse, Weatherspoon, Coleman e la stella locale Tim Thomas, dentro il jolly Aaron McKie, il play Eric Snow, Theo Ratliff e Tyrone Hill sotto le plance e Giorgione Lynch, tutti onesti mestieranti pronti a fare il lavoro sporco mentre ad Iverson restava solo il compito di segnare, la classica libertà di inventare fornita alla stella della squadra.
Iverson però non capì una sega di tutto il processo ed abusò del fatto di essere al centro del progetto: arrivava tardi agli allenamenti (practice? ci arriveremo), alle partite, perdeva treni e aerei; mangiava venti, venticinque tacos tattici a colazione, così quando poi inevitabilmente restava chiuso in bagno per 6 ore consecutive aveva la scusa per saltare le sessioni di cardio e sollevamento pesi; una volta mandò i suoi amici a prendere sua madre all’aeroporto, questi scordarono dove avevano parcheggiato la macchina e ne comprarono un’altra; vendette la casa al compagno Matt Geiger e questo trovò una Mercedes parcheggiata nel garage, 25 paia di Timberland nuove in camera da letto e banconote da cento sul tappeto.
Brown inizialmente non disse nulla, perché voleva fare il bene della squadra – dopo la prima stagione di transizione, infatti, arrivavano le prime vittorie -, ma ben presto si rese conto che stava creando una diversa linea di trattamento tra Iverson e il resto dei compagni, e questo alla lunga non avrebbe pagato. Durante una discussione con McKie e Snow durante la quale i due si erano offerti di dare una mano a “domare” Iverson, quando disse che Allen aveva avuto un’infanzia difficile, i due gli fecero notare che di altri 12 giocatori nello spogliatoio si sarebbe potuto dire lo stesso.
Questa frase illuminò Brown, portandolo a decidere che Iverson non avrebbe ricevuto più alcun trattamento di favore, ma capì in fretta che avere la meglio sul caratteraccio di The Answer sarebbe stato più difficile che far vincere l’MVP a Bettino Craxi. Se lo si criticava in pubblico si offendeva, se lo si sostituiva si irritava (anche dopo aver giocato 40 minuti) e se si cedevano i suoi amici si indispettiva (“Perché hai ceduto Larry Hughes? Ah no aspetta, giocava nel mio ruolo, giusto”).
Ovviamente Brown fu ad un passo dal cederlo molte volte, ma il rapporto tra i due era forgiato sul conflitto e sull’affetto in egual misura e, anche se non se ne rendevano conto, stavano diventando inseparabili.
In più, finalmente la squadra aveva iniziato ad ingranare: nella stagione 98/99 raggiunsero i playoff, superando i Magic di Penny Hardaway e Horace Grant al primo turno, ma furono eliminati nel turno successivo dai Pacers di Reggie Miller e Larry Bird in versione coach.
L’anno successivo, dalla famigerata trade sgradita ad Allen Iverson con cui fu ceduto il giovane Larry Hughes, arrivò Toni Kukoc con una valigia d’esperienza e punti nelle mani. La squadra era sempre più solida, al punto che quando in primavera Iverson si infortunò ad un dito fu l’onesto Eric Snow a caricarsi capra e cavoli sulle spalle e a smazzare assist e punti in piena trance agonistica.
Arrivarono ai playoff con Allen acciaccato per l’infortunio al dito e un nuovo infortunio al gomito e Snow fuori per un problema alla caviglia, ma grazie a McKie che aveva la mano bollente come il cofano di un Ape Car a ferragosto riuscirono a superare agilmente gli Hornets del rookie Baron Davis.
Poi si trovarono di nuovo davanti la corazzata di Indiana, ancora più agguerrita dell’anno precedente: in gara 1 i Pacers andarono avanti con Jalen Rose e Reggie Miller che ne lasciarono giù 40 a testa (dei 108 totali della squadra), in gara 2 raddoppiarono con un’altra trentellata firmata J-Rose e in gara 3 rubarono la vittoria con un parziale di 32-19 nell’ultimo quarto. In gara 4 fu un insperato Tyrone Hill a trascinare i Sixers, approfittando dell’espulsione di Reggie Miller che fu ingaggiato in una rissa tattica dal docilissimo Matt Geiger dopo un’accesa discussione sui meriti di Nikola Tesla.
In gara 4 Iverson ebbe un moto d’orgoglio e ne mise 37, ma nella gara successiva i Pacers riuscirono a riorganizzarsi e a portare a casa la serie, e andarono ad un Kobe e uno Shaq di distanza dal portarsi a casa il titolo.
A fine match Allen scoppiò in lacrime, non tanto per la sconfitta, ma quanto per la consapevolezza di quanto dovessero ancora lavorare prima di riuscire ad arrivare in fondo nella postseason.
Atto IV
“Sono maturo ormai, ho venticinque anni, ho due figli e sono il capitano, tradatemi se potete prendere Grant Hill o qualche campione, ma altrimenti lasciatemi restare” andava dicendo Allen Iverson nell’estate del 2000 a Pat Croce. Certo, oltre ad essere sedotti, abbandonati e ingravidati, un altro sicuro catalizzatore di maturità doveva essere la minaccia di una trade ai Clippers dei primi anni 2000, ma spauracchi a parte Iverson era cresciuto davvero.
La cura Brown e lo scotto di due sconfitte brucianti nella post-season avevano di certo colpito nel segno, e ora Iverson iniziava a desiderare ardentemente l’anello, come il protagonista di un libro di Tolkien.
E lo mise in chiaro.
Nel 2000/01 Brown mise in campo quasi la stessa squadra dell’anno precedente, con due sostanziali differenze.
La prima era Dikembe Mutombo, che arrivò a Febbraio del 2001 da Atlanta, in cambio di Kukoc e di Ratliff, infortunatosi al polso due settimane prima. Deke fornì tutta la sua ingombranza in mezzo al pitturato e si adoperò per stoppare affabilmente la maggior parte di coloro che si avventuravano nella sua zona di competenza, ovviamente con seguente sventolamento dell’indice.
La seconda era lo stesso Iverson, che portò il suo gioco al piano superiore, poi nel terrazzo e infine sulla cima dell’antenna del condominio.
Viaggiò a 31 punti di media, ma le statistiche non bastano a spiegare quanto fosse dominante sul parquet, tra canestri clutch e avversari ridicolizzati. In più la “Georgetown Connection” con Mutombo, che all’inizio aveva suscitato non pochi dubbi, si rivelò essere particolarmente efficace, e i Sixers volavano ai playoff con 56 vittorie e Iverson nominato MVP dell’All Star Game e della Regular Season. Questo fu anche l’anno in cui iniziò ad usare l’iconico manicotto, che poi fu copiato da tutta la Lega per l’estetica e in seguito da tutti i Minors che giocavano in palestre senza riscaldamento.
Al primo turno trovarono subito un fantasma da esorcizzare nei vecchi nemici degli Indiana Pacers, che seppur lontani dai livelli della stagione scorsa, spaventarono tutti a morte vincendo gara 1 a Philadelphia, ma furono poi eliminati grazie due vittorie fuori casa dei Sixers, con un sospiro di sollievo collettivo della Città dell’Amore Fraterno.
Al turno successivo incontrarono i Raptors di Vince Carter, e ingaggiarono una delle più spettacolari serie della storia dei playoff.
Descriverla con un testo scritto è oltraggioso, dico solo che Vince Carter mise sul piatto un cinquantello, Iverson ne mise due e che si finì a gara 7 con i Sixers vittoriosi per un solo punto.
Al turno successivo c’erano ad attenderli i Milwaukee Bucks di Ray Allen, il nemico d’infanzia, quello che scritturarono quando Iverson rifiutò il ruolo di Jesus Shuttlesworth: il duello fra i due fu naturalmente spettacolare, con il picco di 87 punti realizzati complessivamente in gara 6.
La chiave di volta della serie fu Mutombo, che elevò il livello del suo gioco attirandosi le attenzioni della difesa e consentì quindi ad Iverson di trovare più spazio in attacco. Chiusa la serie nuovamente in gara 7, con 44 punti lasciati in regalo a Ray Allen con cordialissimi saluti, era tempo di Finals.
I Lakers li aspettavano al varco come favoriti dai pronostici e con Shaq e Bryant orchestrati del geniale Phil Jackson, ma Iverson dimostrò un cuore e degli organi riproduttivi di dimensioni pachidermiche in gara 1, quando realizzò 48 punti per vincere il match fuori casa, condendolo dell’iconico Step Over Tyronn Lue, che dopo quel crossover fu ritrovato in stato confusionale nelle colline sopra L.A. mentre credeva di conversare con l’arcangelo Gabriele.
In gara 2 Iverson e Kobe ingaggiarono un duello personale, condito da trash talking finale – che provvide a sedare Derek Fisher con una nonchalance quasi comica – e che risultò in un totale di 54 punti realizzati in due.
I Lakers riuscirono ad avere la meglio sia in questo match che in quello successivo, con i 32 punti di Kobe e i 30 di Shaq contro i 35 ( più 12 rimbalzi) di Iverson. I Sixers non risalirono la china nemmeno nei match successivi, grazie alla strategia di Phil Jackson che focalizzò l’attenzione difensiva su Iverson e impedì una qualunque rimonta. Kobe e Shaq aggiunsero in bacheca l’ennesimo anello, e la grande corsa dei Sixers si infranse drammaticamente.
L’anno successivo la squadra fu costruita per essere il più complementare possibile al gioco di Iverson, che cercava di lavorare sull’aspetto psicologico del suo gioco – leadership, consistenza, durabilità -, ma a causa dei numerosi infortuni la squadra perse la chimica della stagione precedente.
Iverson spesso e volentieri tornò a partite vintage in cui cercava di fare tutto da solo, provocando la drastica caduta delle percentuali dall’anno precedente e la squadra finì con l’approdare ai playoff solo per essere eliminata in sordina al primo turno dai Celtics di Pierce e Walker. Il nostro concluse la stagione in gloria con la storica conferenza stampa in cui si lanciò in una filippica contro i giornalisti che lo accusavano di saltare gli allenamenti, ripetendo “Practice” circa venticinque volte nel corso dell’orazione.
Come se non bastasse, a giugno Iverson fu coinvolto in un nuovo scandalo. Un aspro litigio con la moglie era infatti terminato con lui che la sbatteva amabilmente fuori di casa vestita solo della propria vergogna, ma poiché dopo qualche giorno lei non dava segni di voler tornare, Allen andò a cercarla insieme allo zio e irruppe clamorosamente in casa di suo cugino credendo di trovarla lì.
Un uomo presente nella stanza vide un rigonfiamento nelle tasche di Iverson, e dopo aver fatto due calcoli, capendo che Iverson non poteva “essere felice di vederlo”, pensò bene che fosse una pistola e chiamò la polizia. Iverson fu immediatamente arrestato con una varietà di accuse tra cui possesso illegale di armi (di nuovo!) e violazione di proprietà privata, ma al processo fu completamente scagionato perché si scoprì che in tasca aveva un banalissimo cercapersone e che la proprietà che aveva violato era sua, visto che ne pagava l’affitto.
Nonostante fosse altro materiale da sketch dei Monty Python, la sua reputazione ne soffrì comunque.
L’arrivo dello Sceicco Bianco Keith Van Horn non aiutò i Sixers a iniziare bene la stagione 2002/03, che proseguì a rilento fino all’All Star Break, quando l’innesto di Kenny Thomas si rivelò l’ingranaggio che mancava all’attacco dei Sixers, fino ad allora deludente. Iverson salì in cattedra, dimostrando grande leadership dentro e fuori dal campo, e anche Van Horn riuscì a dare un valido contributo con delle sane bombe dall’angolo.
Si arrivò ai playoff puntando ancora una volta alle Finals, e sull’onda dell’entusiasmo Iverson sganciò 55 punti agli Hornets in gara 1, segnando tiri illegali in 57 stati. Poi per par condicio in gara 2 non sarebbe riuscito a far entrare neanche una pallina da tennis in una vasca da bagno, ma ebbe l’ottima idea di coinvolgere i compagni e i Sixers si portarono così sul 2-0, per poi chiudere la serie in gara 6 sul 4-2.
Al turno successivo trovarono i Pistons, che erano alla vigilia all’epica cavalcata dei Bad Boys 2.0, e che guidati da Rip Hamilton vinsero agilmente gara 1 e strapparono una W in gara 2 all’overtime. I Sixers pareggiarono le due gare successive, con la testa già alle finali di Conference, ma i Pistons vinsero di rapina la gara successiva al Palace e chiusero la serie vincendo gara 6 a Philadelphia, approndando trionfanti in finale di conference a farsi sweppare dai Nets di Jason Kidd, Richard Jefferson, l’avenger Mutombo e ovviamente l’immenso White Mamba Brian Scalabrine.
Il colpo di grazia per i Sixers furono le seguenti dimissioni di coach Larry Brown, che andò ad allenare proprio i Pistons, per dare finalmente vita alla storia che abbiamo raccontato qui.
Il suo posto fu preso dal suo assistente Randy Ayers, che decise di sostituire Van Horn con uno scorer, Glenn Robinson, che avrebbe dovuto attirare attenzioni in post per creare spazio ad Iverson ma allo stesso tempo sopperire durante le serate in cui Allen sparacchiava al tiro, il tutto senza chiedere troppi palloni. Ed era pure automunito.
Sulla carta l’idea era buona, ma in pratica fu una Caporetto, con Iverson che senza Brown in panca non mostrava l’impegno di un tempo e con la squadra piagata dagli infortuni. Ad Ayers subentrò poi Chris Ford, che iniziò a pensare all’eventualità di cedere Iverson per poter iniziare un processo di ricostruzione del roster, ma si arrivò all’estate del 2004 senza che ciò fosse accaduto e ovviamente senza essere approdati ai Playoff.
Dopo un misero bronzo strappato alle Olimpiadi di Atene dove aveva ritrovato Larry Brown, Iverson trovò un nuovo coach ad aspettarlo – Jim O’Brien – e una squadra profondamente rinnovata, con il rookie Iguodala, il giovane tiratore Kyle Korver e il centrone Samuel Dalembert a immettere nuova linfa nelle vene della franchigia. L’arrivo di Chris Webber a metà stagione si rivelò una mossa azzeccata, e lo stesso Iverson riprese a dominare senza ritegno, arrivando a dare un career-high di 60 punti ai Magic nella seconda partita giocata in altrettanti giorni. Andò vicinissimo al secondo titolo di MVP, ma il record della franchigia era troppo basso per essere preso seriamente in considerazione.
Bastava, però, per una fugace apparizione ai playoff, terminata subito dai campioni in carica dei Pistons con un secco 4-1, con Iverson che registrò 37 punti e 15 assist nell’unica vittoria di Philly.
Ormai però il rapporto di Allen con la Città dell’Amore Fraterno era ben poco amorevole, e dopo l’ennesima stagione senza playoff (con Maurice Cheeks in panchina), fu multato e panchinato assieme a Chris Webber quando arrivarono in ritardo per l’ultima partita della stagione e la Fan Appreciation Night. In estate dichiarò di voler “restare un Sixer a vita, ma solo finché era voluto”: tuttavia la stagione successiva iniziò terribilmente sul campo e fuori, con Iverson multato per aver saltato un evento di bowling con dei tifosi VIP – con le sale da bowling ha proprio avuto un rapporto contrastato – e criticato per essersi diretto negli spogliatoi a metà dell’ultimo quarto di una partita persa sonoramente contro i Bulls.
Matt Barnes ha recentemente raccontato che in quel periodo si recarono insieme ad uno strip club, e che guardò con gli occhi sbarrati come Iverson gettasse 30.000, 40.000 dollari alle spogliarelliste. In seguito, siccome Matt Barnes è il più grande eroe della storia dell’umanità, aveva provveduto ad agganciare con il piede le banconote a tiro per rilanciarle o mettersele in tasca.
Due giorni dopo la bravata compiuta contro i Bulls gli fu comunicato di non presentarsi alla seguente partita contro i Wizards, e che “un cambiamento sarebbe stato meglio per tutti”. Poco tempo dopo fu ceduto ai Denver Nuggets per Andrè Miller, “11 squadre in 10 anni” Joe Smith e due scelte al primo giro (Daequan Cook e Pettari Koponen) poi cedute ad altre squadre in sede di draft.
Rileggete un attimo, e pensate al fatto che ne metteva ancora 31 a sera quando fu ceduto.
Tutto il Colorado fremeva in attesa di vedere Iverson con la casacca dei Denver Nuggets, ma Madre Natura non era d’accordo e il giorno dopo la chiusura della trade si scatenò una tempesta che regalò alla Mile High City 20 centimetri di neve in 48 ore e impedì l’arrivo del volo di Iverson. Giusto per partire bene.
Iverson era però l’insperata cavalleria di cui i Nuggets avevano disperatamente bisogno, visto che Carmelo Anthony e J.R. Smith avevano pesanti sospensioni da scontare a causa della rissa avvenuta pochi giorni prima contro i Knicks, e nella quale il momento topico era stato lo spintone del napoleonico Nate Robinson – che in testa sua è alto almeno 2 e 08 – a J.R. Smith, 23 centimetri più alto di lui.
Serviva come il pane uno con punti nelle mani, e sembrava proprio un lavoro per Iverson, che non chiedeva altro e che con George Karl a dirigerlo dalla panca migliorò anche le percentuali al tiro. Poi a fine gennaio tornò Anthony dalla sospensione, e subito chiese notizie della palla, che non vedeva l’ora di tirare nuovamente venti volte a partita.
Karl aveva l’ingrato compito di ingegnarsi a trovare un modo di far giocare Iverson e Anthony con un pallone solo, e per le prime ventidue partite fallì miseramente, totalizzando un record di 8-14. Quando tutto sembrava volgere al peggio, riuscì a trovare la quadratura del cerchio dopo un pellegrinaggio in vesti da supplice sul Monte Carmelo nell’alta Galilea, riuscendo a vincere 16 partite delle ultime 21 e ad acciuffare i playoff.
Ad attenderli c’erano però gli Spurs, che erano forse l’unica squadra ad ovest che stava giocando meglio di loro, avendo vinto 25 partite nelle ultime 30. Ai Nuggets non fregò niente e con 61 punti combinati da Melo e Iverson si portarono a casa gara 1 di prepotenza, ma fu la loro unica vittoria nella serie.
A Denver successe qualcosa di buffo: Iverson limitò le sue uscite notturne, diede retta a quello che diceva coach Karl, si trovò bene con Anthony, non saltò gli allenamenti e gli piacquero le scuole dove mandava i suoi figli. Sarà stata l’aria di montagna, ma sembrava davvero pronto a ricominciare da capo.
La stagione successiva Iverson e Melo si trovarono a Versailles per stipulare un trattato equo sulla spartizione dei tiri, e trovarono l’accordo su 19 a testa, totalizzando entrambi intorno ai 25 punti nel corso della stagione. I Nuggets vinsero 50 partite, ma furono asfaltati ai playoff dai Lakers, e iniziò a farsi strada nel front office la corrente di pensiero secondo la quale il 33enne Iverson stesse rallentando, la quale alla fine si concretizzò nella trade che portò Iverson a Detroit e Billups a Denver.
Atto V
L’avventura di Iverson a Detroit iniziò con gag ed entusiasmo, nonostante i dubbi della tifoseria che adorava Billups ed era dispiaciuta per la sua partenza.
Tuttavia, Iverson stesso dichiarerà che andare a Detroit fu la peggiore mossa della sua carriera, e l’anno trascorso ai Pistons fu la sua stagione peggiore.
La squadra vinse solo 22 delle 54 partite giocate da Iverson, e lui stesso totalizzò dei magri 17 punti e 4 assist di media, tirando col 41% dal campo.
Un giorno l’allenatore Micheal Curry pronunciò la parola “panchina” in sua presenza, e il cielo si rannuvolò, il velo del tempio di Salomone si squarciò in due e la Motown fu invasa dalle rane. Piaghe bibiliche o no, al ritorno da un lungo infortunio toccò davvero ad Iverson partire dalla panchina: visibilmente arricchito dall’esperienza che non provava da quando era bambino, fece ricorso a tutta la sua diplomazia e disse: “Meglio ritirarsi che giocare da panchinaro”.
Rimasto fuori per il resto della stagione sia per gli infortuni che per il temperamento, Iverson si trovò con molto tempo libero: ben presto fu noto che non era più ospite gradito nei casinò di Detroit e Atlantic City, a causa di comportamenti come lanciare le carte in faccia ai croupier quando perdeva, fare pipì in bidoni della spazzatura e maleducazione varia.
Terminata la ricca stagione a Detroit, Iverson twittò che “Memphis era il posto che Dio aveva scelto affinché continuasse lì la sua carriera”. Purtroppo Dio cambiò idea dopo tre partite, secondo fonti interne insoddisfatto perché il suo amico Iverson partiva di nuovo dalla panca.
Terminato il suo contratto con i Grizzlies dopo appena due settimane, trovò l’accordo per un clamoroso ritorno a Philadelphia.
Oltre la pelle d’oca della prima partita giocata con la canotta dei Sixers dopo anni, però, la stagione diede ben poche soddisfazioni ad Iverson: giocò solamente 25 partite a medie decisamente basse prima di abbandonare la squadra nel Febbraio del 2010 per occuparsi dei problemi di salute di sua figlia, saltando anche All Star Game per il quale era stato votato titolare.
Ben presto si diffusero voci sui problemi che Iverson stava attraversando: una presunta dipendenza dal gioco d’azzardo, la tendenza all’alcolismo, il divorzio con la moglie che amava da quando aveva 17 anni, la figlia più piccola che soffriva di una malattia sconosciuta.
Non riuscì a trovare un contratto per la seguente stagione NBA, e finì a giocare al Besiktas, in Eurocup, muovendo ad Est per sperare di risorgere dal Bosforo e seguire lo stesso cammino del sole, per poter tramontare serenamente ad Ovest.
Istanbul era quanto di più antitetico allo stile di vita di Iverson: gioco d’azzardo illegale, allenamenti due volte al giorno, arene più piccole di quelle in cui aveva giocato al college.
Quando usciva la sera non si recava in discoteca, ma in un T.G.I. Friday’s a mangiare cheesecake, a cantare nostalgicamente: “Volerei da Hampton ad Istanbul, passando per Dee-troit, Phila e Melo, sognando Theo (Ratliff)” e ad aspettare il momento in cui avrebbe potuto tornare in NBA per chiudere la sua carriera come avrebbe voluto.
Il pubblico turco faceva un gran casino quando segnava, anche se giocava al 24% delle sue potenzialità, e Iverson riuscì a sentirsi desiderato. Poi però entrarono in gioco gli infortuni alla caviglia, e dopo sette partite fu forzato a tornare in America per sottoporsi ad un intervento. Riuscì a tornare per un paio di partite di Eurocup, ma anche la sua avventura in Turchia poteva dirsi conclusa.
Tentò in tutti modi di avere un’ultima opportunità in NBA, un ultimo palcoscenico che gli consentisse di far calare il sipario degnamente, ma tutto quello che ottenne fu un’offerta da parte dai Texas Legends della D-League, che grazie a tutte le divinità rifiutò rispettosamente.
Allen Iverson non è più tornato su un parquet dell’NBA, se non per la cerimonia tenuta alla prima partita dei Sixers del 2013-14, quando ha annunciato il suo ritiro, e poi qualche mese dopo per il ritiro della sua canotta numero 3, con un completo prestato da Spike Lee.
Non ci sarà mai un altro come Allen Iverson, un altro con la sua storia, la sua influenza, il suo gioco.
Ma non è necessariamente una cosa negativa, perché anche se la sua carriera non gli ha regalato la gioia di un anello, gli ha conferito la consapevolezza di essere diverso, inimitabile, unico.
Forse, ma solo forse, anche più di quell’anello che hanno vinto in tanti.
Per questo ogni giocatore di basket sotto il metro e ottantacinque, nei più profondi abissi del suo subconscio, sogna di essere come lui.
(disegno di copertina a cura di http://fanciullodelghetto.blogspot.it/)
ho le lacrime . G R A Z I E
Stupendo! Sei un artista (tu, come Iverson)
L’autore è stato così bravo che, pur non avendolo mai visto giocare, è riuscito a farmi stare sulle balle Allen Iverson 🙂