di Roberto Gennari
“Questa storia è totalmente vera, perché io me la sono inventata da capo a piedi.”
(Boris Vian)
Per un curioso caso del destino, una di quelle storie che negli USA verrebbero etichettate come “The Curse Of Qualcosa”, le ultime cinque volte in cui la Pallacanestro Varese ha chiuso la regular season al primo posto, poi non ha vinto lo scudetto. Anzi, si è fermata per cinque volte su cinque in semifinale playoff: è successo nel 1979, nel 1981, nel 1987, nel 1988 e nel 2013. Altrettanto curiosamente, nelle uniche tre volte in cui Varese ha chiuso al secondo posto ha sempre centrato la finale scudetto, portandosi a casa il titolo di campione d’Italia in due occasioni su tre. L’ultima di queste situazioni si è verificata esattamente vent’anni fa, quando a Varese avevano pensato che potesse essere una cosa figa darsi un nome da squadra americana (“Roosters”, ovvero “galletti da combattimento”) e soprattutto avevano una squadra di matti autentici, il cui esemplare più in vista (ma probabilmente non il più matto, anche secondo il suo coach) era, ed è tuttora, Gianmarco Pozzecco, il “Poz”, o se preferite “la mosca atomica” (lui non preferisce, anzi questo soprannome non gli è mai piaciuto, ma pazienza). Se passate dalle parti di Masnago e snocciolate “Pozzecco, Meneghin, Mrsic, De Pol, Santiago” è altamente probabile che qualcuno vi dia una pacca sulla spalla, e al massimo aggiunga “eh, ma anche Galanda, Cecco Vescovi, Zanus Fortes. Soprattutto Zanus Fortes. E Giadini, Van Velsen, e i giovani Bianchi e Calamia…”
Una volta parlai con un mio amico che vive da quelle parti e mi disse che Zanus Fortes è di gran lunga il giocatore più amato di quegli anni lì, tipo che se si fosse candidato a sindaco nel 2001 avrebbe vinto a mani basse. Zanus Fortes è quello che al McDonald’s Open aveva i capelli fucsia come Pozzecco, e come li aveva già nelle finali scudetto, però con una stella gialla in bella vista sulla nuca a ricordare al mondo intero quello che quella banda di matti aveva combinato pochi mesi prima.
“Non è servito a niente rompermi il naso, dovevano rompermi qua [si indica il petto, NdR], perché un naso rotto non serve a niente, dovevano romperli a tutti e non sarebbe bastato, e insomma niente, non so nemmeno cosa sto dicendo”.
Probabilmente la sintesi dello scudetto di Varese è anche in questa intervista di Pozzecco a fine gara, nel mix tra cuore, incoscienza, imprevedibilità che ha caratterizzato la banda di Charlie Recalcati in quell’irripetibile primavera del 1999. Quella primavera che tra il 4 aprile e l’11 maggio vide Varese vincere 9 partite su 11 nei playoff scudetto, facendo prima fuori la Pepsi Rimini di Piero Bucchi, che aveva nelle proprie fila Antonio Granger, Alex Righetti e Marko Tusek, poi la Virtus Bologna di Danilovic, Rigaudeau, Sconochini guidata da Ettore Messina e infine la Benetton Treviso, un 3-0 secco e senza attenuanti ad una squadra che aveva Riccardo Pittis e Marcelo Nicola, Željko Rebrača ed il povero Henry “Hi-Fly” Williams, Davide Bonora e Denis Marconato. Ah, e un altro Željko in panchina, quello che avrete sicuramente sentito nominare quando si parla di Final Four di Eurolega.
Ecco, quando si parla dello scudetto della stella di Varese si parla tanto, tantissimo del “genio e follia” che i biancorossi mettevano in campo, e forse troppo poco del lavoro di quello che in quegli anni è stato indubbiamente il miglior allenatore d’Italia e uno dei migliori in Europa. Charlie Recalcati, nel quinquennio che va dal 1999 al 2004, infatti, ha riportato al successo Varese, ha fatto vincere il primo scudetto della sua storia alla Fortitudo Bologna e il primo scudetto della sua storia alla Mens Sana Siena, oltre a guidare gli azzurri all’accoppiata storica Bronzo Europeo 2003-Argento Olimpico 2004. Recalcati è stato un coach “moderno” nel senso che prima e meglio di altri ha saputo liberare i talenti di cui disponeva: Pozzecco a Varese, Myers a Bologna, Basile in Nazionale, Galanda in tutti i luoghi e in tutti i laghi, solo per citare quelli che hanno passaporto italiano.
A dire il vero, già a inizio stagione l’allora presidente Bulgheroni si era sbilanciato e aveva affermato di aver costruito una squadra che poteva essere competitiva contro chiunque, ma in tanti gli avevano dato il peso che si dà alle dichiarazioni di rito di qualsiasi squadra con un minimo di blasone.
Solo che poi succede che la banda di Charlie, guidata dagli esterni Meneghin, Pozzecco e Mrsic (in ordine crescente di punti a partita) inizia a vincere, e come spesso accade, ci prende gusto e non riesce quasi più a smettere. Il campionato si apre con sei vittorie consecutive. A un certo punto della stagione, il record dei Roosters è 16 vinte e una persa, di tre, contro Verona. I biancorossi si sono già presi lo scalpo della Benetton Treviso e delle due corazzate bolognesi, Virtus e Fortitudo. A tre giornate dalla fine si ferma il Poz, e per un breve, brevissimo momento sembra che si sia rotto il giocattolo: le due imbarcate prese contro Treviso (97-50) e Fortitudo (73-90 a Masnago, all’ultima di campionato) costano ai galletti da combattimento il primo posto in campionato, superati in volata proprio dalla Effe di Myers, Basile, Fucka e chi più ne ha più ne metta. Ma ci sono i playoff, e Pozzecco, che di quella squadra è fondamentalmente il leader emotivo, rientra già dalla prima gara contro Rimini, che agli ottavi a sorpresa ha eliminato Reggio Emilia in due partite. La serie si chiude sul 3-1. Il Poz “stecca” tre partite su quattro, Varese passa lo stesso: ottimo segno. L’avversaria della semifinale è tosta, tostissima: la Virtus Bologna di Ettore Messina, che è campione in carica, che aveva fatto fuori Varese l’anno precedente in semifinale scudetto, che ha battuto Varese in finale di Coppa Italia a fine gennaio e che ha il dente avvelenato per aver appena perso la finale di Eurolega contro lo Zalgiris. I ragazzi di Recalcati sfruttano al meglio il fattore campo nel primo match della serie, sbancano Bologna nella seconda partita e vanno avanti 2-0 nella serie e 50-38 in gara-3. La Virtus però non vuole saperne di mollare e quando mancano 5 secondi alla fine è avanti 80-78. Mrsic subisce fallo sul tentativo di tripla, dalla lunetta è glaciale e porta Varese sull’81-80, quando il coast-to-coast di Abbio spedisce la serie al PalaDozza e in molti scommettono che si andrà a gara-5 a Masnago, coi Roosters che dovranno stare attenti alle gambe che tremano e ai palloni che pesano. E invece i biancorossi vanno a Bologna e giocano la partita che non ti aspetti, una squadra che segnava 82 punti a partita in stagione regolare si trova a dover disputare una gara nervosa ai 60 punti, ha quattro punti da Pozzecco, cinque da Meneghin e sei da Mrsic ma la vince lo stesso con gli eroi che non ti aspetti: Vescovi 12, Galanda 13, De Pol 16. Dall’altra parte manca Sasha Danilovic, e si vede. Finisce 63-60, Varese è in finale e si sente onnipotente. Lo sarà, con Treviso che aveva fatto fuori in gara-5 l’altra bolognese, la Fortitudo, che dopo essere stata anche sul +16 perde la “bella” a fil di sirena con la stoppata di Marconato su Karnišovas che i tifosi biancoblù hanno ancora di traverso. La Benetton resterà in partita per tutti i 120 minuti delle tre partite di finale, ma il risultato finale dirà comunque 3-0 per Varese, che tornerà campione d’Italia ventun anni dopo l’ultimo scudetto.
Le istantanee della stagione sono per i capelli rosa e i tamponi nel naso di Pozzecco, per il balletto “chicken dance” dopo un canestro in gara tre, per la sua frase passata alla storia del basket nostrano:
“Sono un pagliaccio, ma sono il numero uno dei pagliacci”
per Zanus Fortes anche lui in fucsia; per Meneghin che si taglia la barba (ma non i capelli) due giorni dopo la vittoria dello scudetto per un fioretto fatto, o che porta una giacca nuova a Riccardo Pittis a metà campo, per scusarsi di avergliene rovinata una per scherzo in discoteca… Mille storie, mille aneddoti che negli anni sono venuti fuori, come quando Pozzecco raccontava che in realtà lui era quello più sotto i riflettori, ma che c’era chi faceva peggio di lui: degli scherzi di Meneghin ai compagni di squadra, alle soste in autogrill dove non si bevevano solo acqua e succhi di frutta, ai rituali prepartita…
Il momento della verità.
Qui, a vent’anni di distanza, è il momento di far parlare il diretto interessato, perché possa darci una volta per tutte la sua versione dei fatti.
Menego, da te vogliamo la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Varese quell’anno ha vinto perché…
Ha vinto per tanti motivi. Quella squadra era già una squadra “moderna”, nel senso che eravamo quasi tutti molto alti, a parte uno, e tutti con un buon trattamento di palla e tiro da fuori: c’ero io che sono alto 2 metri, Cecco Vescovi e Giadini pure, Mrsic 2.03, Sandrino De Pol e Van Velsen 2.04, Zanus Fortes 2.06, Galanda e Santiago 2.10… fisicamente non soffrivamo nessuno, molti di noi potevano giocare in più ruoli, ad esempio Mrsic giocava da 2, da 3 e da 4 nell’arco della stessa partita. E poi c’era il Poz, che era quello che non era alto due metri, ma che era la miccia che accendeva il fuoco. Poi certo, le componenti di una vittoria sono tante: nessuno di noi si è fatto male seriamente in tutta la stagione, eravamo un gruppo straordinario che si frequentava anche fuori dal campo e anche chi entrava dalla panchina era sempre bravissimo a rimanere concentrato e dare il suo contributo, che giocasse 2 minuti o 10 o 25. Quando in un gruppo c’è sintonia, rispetto dei ruoli e consapevolezza dei propri mezzi, questo in campo si vede.
E quanto di questa vittoria è frutto del lavoro di Recalcati, sia a livello tattico che nella “costruzione” di un gruppo così coeso?
La nostra fortuna è che tanti di noi si conoscevano già da diversi anni, e sulla coesione questo, unito al lavoro di coach Rusconi, ha aiutato tanto. Charlie è stato bravissimo a integrare i nuovi arrivi e a massimizzare questo spirito di gruppo. Alla fine, noi avevamo Galanda che è stato il primo 4 che sapeva tirare da tre, ma Recalcati ha saputo sfruttarlo al meglio. Alla fine, il basket che giocavamo con lui era un basket molto bello perché ad esempio negli attacchi a difesa schierata avevamo una “traccia” ma se qualcuno si trovava in una situazione di vantaggio aveva campo libero per prenderselo. E questo era anche il motivo, insieme alle nostre caratteristiche fisiche e tecniche, per cui ci sapevamo adattare agli avversari e alla partita. Anche aver giocato l’Eurolega ci fu molto utile, perché giocavamo contro squadre davvero molto forti e questo ci ha permesso, insieme al metro arbitrale diverso, di poter crescere come giocatori.
Torniamo per un attimo al rapporto splendido che aveva quel gruppo: c’è qualcosa, un aneddoto della squadra, che non hai mai detto a nessuno e che adesso dopo vent’anni è giunto il momento di portare alla luce?
Oddio, ci devo pensare… Per prima cosa, la storia dell’enigmistica, che è ormai nota. Il Poz esce dal bagno con in mano la settimana enigmistica di Natale e fa: “ragazzi, tranquilli, ho unito i puntini (che era l’unica cosa che diceva di saper fare) ed è venuta fuori la stella cometa. Questo è un segno del destino, vinciamo lo scudetto della stella”. Gli scherzi in spogliatoio erano all’ordine del giorno, tipo una cosa che facevamo sempre era che l’ultimo ad uscire dallo spogliatoio bagnava l’asciugamano di un compagno e lo metteva in freezer per due ore, così quando rientravamo negli spogliatoi uno di noi si ritrovava un bell’asciugamano ghiacciato, comodissimo per farsi la doccia. Ah, uno dei segreti dello scudetto era che ogni trasferta, OGNI TRASFERTA che facevamo in pullman iniziava mettendo nel televisore dell’autobus il film “Yuppies 2”. Poi di storie ce ne sono un’infinità, te ne dico un paio. Poz che quando festeggia coi tifosi si indica il naso e il petto e dice “non devono colpirmi qui, devono colpirmi qui”, pensando di indicarsi il cuore… ma si tocca il petto sulla destra: evidentemente era ancora stordito per la botta rimediata. Oppure Cedro Galli, quell’anno viceallenatore, che alla prima di campionato guarda Mrsic e fa a Recalcati: “Charlie, oggi Velio non mi sembra molto in forma, lo vedo giù di tono”: ovviamente Mrsic chiuse a 32 punti. Alcune cose poi sono più sul genere “Animal House”, se le dico tutte mi sa che ci vuole un libro!
Parlare di Varese come di una squadra “di pazzi scatenati” e basta, lo abbiamo già detto, sarebbe riduttivo nei confronti dei meriti di tutti: società, giocatori, allenatore. Questa squadra era anche, anzi, per molti versi era soprattutto, la squadra di Charlie Recalcati, un coach con una storia da gloria canturina alle spalle, soprattutto da giocatore, e che però a Varese disputò due annate straordinarie. Semifinale scudetto il primo anno, con conseguente qualificazione all’Eurolega, e poi quel magico 1998-99. Questo è quello che ci ha detto, ripercorrendo quell’annata.
Coach, sembra ieri e invece sono già passati vent’anni dallo scudetto della stella di Varese. Ripensando a quella stagione irripetibile, c’è stato un momento in cui ha pensato che con quella squadra avrebbe davvero potuto arrivare fino in fondo?
Innanzitutto va detto che quella era una squadra che veniva da un campionato importante già l’anno precedente, quando chiudemmo al quarto posto la stagione regolare e venimmo eliminati in semifinale playoff dalla Virtus Bologna, centrando la qualificazione all’Eurolega. Le partenze di Komazec e Petruška vennero compensate inserendo Mrsic e Santiago, che si integrarono subito alla perfezione con un nucleo di giocatori italiani che erano insieme già da qualche anno, e cosa non di poco conto, con una discreta componente di giocatori varesini DOC: Meneghin, Vescovi, Maurizio Giadini venivano tutti dalle giovanili: questo permetteva anche ai tifosi di identificarsi coi propri beniamini e creava un legame speciale tra squadra e città. Ritornando alla stagione, direi che il momento in cui abbiamo capito la forza del nostro gruppo è stato nella finale di Coppa Italia, persa di due contro la Virtus Bologna dopo essere stati avanti per 38 minuti. Ecco, forse il non aver vinto quella coppa ha fatto scattare una molla, sia a livello di consapevolezza dei propri mezzi che di fame di vittoria.
In molti, quando parlano di quel gruppo, parlano di un insieme di personalità – diciamo così – “esuberanti”. Ovviamente c’è molto altro, ma è stato difficile gestirlo?
Indubbiamente era un gruppo “particolare”, ma il lato positivo è che era un gruppo di grandi amici: loro stessi per primi hanno capito che era necessario gestirsi e aiutarsi reciprocamente. Il presupposto, nel basket come in tutti gli sport di squadra, è che nessuno fa risultato da solo. Questi ragazzi hanno fatto un grande sforzo per essere sempre più compatibili tra di loro e così facendo migliorarsi a vicenda. È veramente un ottimo esempio di situazione in cui il tutto è maggiore della somma delle parti. Anche la società e la proprietà hanno dato una grossa mano, facendoci sempre sentire la loro fiducia in noi: ad esempio quando a fine girone di ritorno si è fermato Pozzecco per la polmonite, nelle ultime due giornate abbiamo perso la testa della classifica prendendo una batosta clamorosa a Treviso. Ecco, in quel momento, la famiglia Bulgheroni, in primis Toto che era uomo di basket, ci ha aiutati a mantenere calmi e ad avere fiducia in noi stessi.
Riguardando l’evoluzione del basket in questi anni, si può dire che quella Varese giocava già una pallacanestro “moderna”?
Certamente siamo stati dei precursori, in un basket dove i ruoli erano ancora piuttosto cristallizzati noi avevamo una rosa di giocatori che poteva giocare in più ruoli e potevamo schierare quintetti anche molto alti ma al tempo stesso riuscendo ad essere una minaccia costante nel tiro da fuori, oppure quintetti piccoli. Ecco, quando in quelle situazioni riuscivamo a tenere botta in difesa, in attacco chiaramente si creavano tanti vantaggi. Potevamo schierare contemporaneamente cinque giocatori sopra i due metri, ad esempio quando avevamo Meneghin, Mrsic, Vescovi, De Pol e Galanda, che erano tutti minacciosi da tre e al tempo stesso avevano un ottimo gioco spalle a canestro. Poi c’era il Poz, che ci dava quell’imprevedibilità in più che era sempre un bel problema per gli avversari. Fatemi anche dire che, da allenatore, aver eliminato Ettore Messina in semifinale e Zelimir Obradovic in finale è stato per me un motivo di orgoglio. Ecco, una cosa che mi sento di dire è proprio questa: da coach, confrontarsi con allenatori così forti ti costringe a cercare soluzioni nuove, innovative, a migliorarti. Avere così tanti allenatori di alto livello in Italia in quegli anni era una delle fortune del nostro movimento cestistico.
Di quel gruppo di giovani faceva parte anche una leggenda della Pallacanestro Varese. Quello che Andrea Meneghin ha definito “il proprietario dell’albo dei record della pallacanestro Varese” (basterebbe dire che è il primo sia per presenze che per punti segnati, oltre a un tot di altre voci statistiche in cui il suo nome è il primo della lista), l’unico trentacinquenne in una squadra in cui i “vecchi” erano Mrsic e Zanus Fortes, entrambi ventottenni. Francesco “Cecco” Vescovi, estensione in campo di coach Recalcati, di ritorno in biancorosso appena in tempo per appuntarsi il tricolore al petto. E abbiamo avuto il piacere e l’onore di ripercorrere anche con lui quel cammino.
Cecco Vescovi, nato e cresciuto cestisticamente a Varese, quanto è stata grande la gioia di quello scudetto per chi è nato in questa città?
Eravamo in tre varesini quell’anno: io, Menego e Giadini, e ovviamente per tutti noi è stato un motivo di orgoglio ulteriore. Io in particolare, che avevo lasciato Varese due anni prima e che a un certo punto della mia carriera non avrei mai pensato di poter vivere una gioia così grande nella squadra della mia città. Sono grato a chi ha preso la decisione di riportarmi in biancorosso e permettermi di vivere questa stagione magica: quando Varese vinceva il nono scudetto io ero nelle giovanili, per cui a 35 anni poter portare di nuovo il titolo di campioni d’Italia alla squadra in cui sono cresciuto è stata una gioia immensa. Ma la verità è che tutta la squadra “viveva” la città: dai bar dove facevamo colazione al mattino, ai supermercati dove facevamo la spesa, ai ristoranti dove andavamo a cena, tutti sapevano dove trovarci. Certo, il fatto che vincessimo così tanto spesso ci faceva essere anche più benvoluti, come sempre succede nello sport.
Da varesino, come fu l’accoglienza della città per coach Recalcati, vecchia gloria dei rivali canturini?
Sinceramente non ci fu nulla di particolare, anche perché Charlie è una persona molto pacata e dai modi gentili, oltre ad essere indubbiamente molto preparato. Certo, a parti invertite, per esempio difficilmente riuscirei ad immaginare Pozzecco sulla panchina di Cantù, anche se nello sport non bisogna mai dire mai.
A proposito di Pozzecco, vogliamo sfatare un “falso mito” di quella squadra? Oltre ad essere una squadra di personaggi esuberanti, Varese era anche una squadra che lavorava duro in allenamento…
Assolutamente! Anche se era oggettivamente una squadra di ragazzi anche votati allo scherzo, dove io magari ero quello un po’ più serio perché gli altri erano tutti più giovani di me, in palestra si lavorava duro tutti, Poz compreso: poteva capitare la volta in cui arrivasse all’allenamento giusto cinque minuti prima dell’inizio, o che dicesse “oggi non ho voglia”, però poi lui, come tutti gli altri, si metteva a lavorare. Quell’anno abbiamo giocato una sessantina di partite tra campionato, playoff, Eurolega e Coppa Italia: impossibile pensare di farlo senza una preparazione fisica adeguata. Tra l’altro, una cosa che adesso si può dire è che prima delle due famigerate sconfitte contro Treviso e Fortitudo, in cui tra l’altro giocammo senza Pozzecco, la squadra aveva fatto un richiamo di preparazione per arrivare fisicamente più pronta ai playoff. Non voglio dire che fu quella la causa del -47 a Treviso, però sicuramente si poteva mettere in conto una flessione di risultati.
Sempre a proposito di Coppa Italia, coach Recalcati ha detto che col senno di poi è stato un bene per Varese aver perso in quel modo perché ha fatto scattare una molla, mantenendo alta la voglia di vincere…
Eh, col senno di poi possiamo dire che è andata bene così, perché siamo arrivati ai playoff con una grandissima fame di vittoria. Poi sul momento ci sono girate le scatole, eccome! Perdere di due una partita condotta per 38 minuti, contro una squadra come la Virtus Bologna, fu veramente un duro colpo. Considera che a Varese mancava un trofeo dalla Coppa delle Coppe del 1980, quindi c’era veramente la voglia di regalare alla città una vittoria dopo tanto tempo e vedersela sfumare così fu difficile da assorbire. Poi siamo stati bravi, tutti quanti, a “canalizzare” questa rabbia per farla emergere nei playoff scudetto.
Titoli di coda. Occhi lucidi. Tappi di bottiglia per terra dappertutto.
Alla fine di questa storia, arriva il decimo scudetto, quello della stella da apporre sulle maglie, che avevano solo l’Olimpia Milano e la Virtus Bologna. Quello più sospirato, che veniva dopo anni duri, durissimi per il basket biancorosso. Dopo i fasti degli anni ’70 con le dieci finali consecutive in Coppa dei Campioni (di cui 5 vinte, che ne fanno a tutt’oggi il club italiano con più titoli nella massima competizione continentale). Dopo gli anni comunque al vertice degli ’80, che si aprirono con la vittoria in Coppa delle Coppe e si chiusero con la finale scudetto persa in 4 gare contro la Scavolini Pesaro. Dopo che gli anni ’90 videro Varese partire nel peggiore dei modi, nel più classico degli “addio sogni di gloria”: playout (e salvezza) nel 1991; playout (e retrocessione, la prima nella storia) nel 1992, con due anni passati nella seconda serie del campionato italiano.
Poi l’inizio della risalita: l’affermazione dell’astro nascente Andrea Meneghin, e l’approdo in Lombardia di Arijan Komazec, una macchina da canestri che aveva appena vinto l’argento alle Olimpiadi del 1992 giocando “quella” finale che tutti ricordiamo e che accettò di lasciare il Panathinaikos per la A2 nostrana. Un tiro dalla meccanica incredibilmente atipica, ma che andava dentro regolarmente: due anni a 32 punti di media prima di passare alla Virtus Bologna. Poi Bill Edwards, ritrovato da avversario ancora alla Virtus in quella serie di semifinale del ‘99, lo sfortunatissimo Chicco Ravaglia, Nikola Lončar, tutti di passaggio verso altri lidi dopo aver fatto bene, benissimo tra le mura del “Lino Oldrini” in quel di Masnàgh. Parliamo di anni in cui i budget delle 14 squadre che componevano la serie A1 erano decisamente più cospicui di quelli odierni, soprattutto a Bologna, dove praticamente sempre una delle due squadre cittadine arrivava in finale, quando non ci arrivavano entrambe. In effetti, quella del 1999 fu l’unica finale in quindici anni in cui a competere per il titolo italiano non ci fosse (almeno) una squadra della città delle due torri.
Piccolo salto temporale. Dieci anni dopo, quando i Roosters si ritrovarono ancora una volta per una partita commemorativa, a Varese si festeggiava una vittoria per 81-70 contro Veroli, con Jack Galanda nel frattempo tornato in maglia biancorossa, che significava tornare nella massima serie dopo la seconda retrocessione della storia, stavolta al primo tentativo.
E allora non è che fosse scritto, che doveva andare così: è stato semplicemente un bellissimo sogno diventato realtà. Per i nati nel ’79 che suonano in almeno 2-3 gruppi e fanno musica datata, lo scudetto di quell’anno è la prima volta, il primo bacio, un’emozione che non si ripeterà mai più uguale, perché all’epoca avevano vent’anni e a quell’età è tutto più intenso, più vivido, più vero. Per Varese è stato semplicemente il sogno più bello, come sempre sono quelli che si avverano quando meno te lo aspetti.
Questa settimana, il nostro viaggio alla scoperta delle squadre che hanno segnato la storia della pallacanestro italiana prosegue con il ricordo dei Roosters di Gianmarco Pozzecco, che vinsero il decimo scudetto della storia della Pallacanestro Varese.