illustrazione grafica di Paolo Mainini

 

 

 

Un grande giocatore, un grande uomo. Perché il biondino, come lo chiamavamo noi, il nostro caro Korac, era un vero intellettuale. Non uno scemo che palleggiava e tirava come molti di oggi. E accidenti se tirava bene.

Bogdan Tanjevic

 

14 gennaio 1965.

Zucko, “il Biondo”, come lo chiamavano tutti, era stato sempre abituato a segnare valanghe di punti. Ne segnava da ragazzino ai campetti di Kalemegdan, dove si intratteneva ogni tanto quando non difendeva la porta delle squadre giovanili del Radnicki. Ne segnava ancora di più quando, una volta deciso di darsi al basket, finì nella cantera dell’Okk. E continuò a farlo tanto in prima squadra quanto in Nazionale.

Ma quella sera c’era qualcosa di speciale nell’aria nella terza palestra di Sajam, il vecchio campo di concentramento sulla riva della Sava riconvertito in complesso sportivo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Era quella la casa della squadra che dominò il basket jugoslavo nel decennio in cui Korac imperversò nel basket europeo.

L’Alvik Stoccolma non era una squadra che facesse tremare i polsi al futuro segretario generale della Fiba Boris Stankovic, che di quell’Okk fu l’alchimista. Nel match di andata degli ottavi di finale di Coppa dei Campioni gli svedesi ne avevano rimediati 46 sul proprio campo. «Eravamo superiori e la partita era l’occasione d’oro per fare qualche record ammise anni dopo lo stesso Stankovicma nessuno durante la partita si accorse che Korac ci stava andando così vicino».

Vicino a cosa? Al record di punti segnati in una singola partita, quello dei 100 punti che Wilt Chamberlain aveva siglato in un Philadelphia Warriors-New York Knicks di un paio d’anni prima.

Erano altri tempi. Se mezzo secolo fa in America tenere le statistiche del match era già diventata una prassi, in Europa a fare fede era solo il referto degli ufficiali di campo e di certo nessuno si pose il problema nel corso della partita di quella sera. Almeno fino al 40’. Korac iniziò da subito a segnare a raffica, ma non al punto da far immaginare che il record dei record potesse davvero vacillare.

La stella serba iniziò col suo marchio di fabbrica, quei tiri liberi tirati a due mani tenendo il pallone da sotto, e finì la prima metà di gara con “soli” 34 punti, con i suoi già avanti per 60-17. Lo show vero e proprio emerse nel secondo tempo. Korac era un’ala dalla grande fisicità (durante il servizio militare si cimentò con il salto in alto toccando l’1.99, misura che di quei tempi era buona per giocarsi una medaglia ai Mondiali) e dalla proprietà di palleggio funambolica: i malcapitati nordici potevano opporre ben poco al biondino nato in Vojvodina. «In panchina nessuno stava tenendo i punti, tutti avevamo capito che Radivoj ne aveva messi un bel po’, ma nessuno immaginava che si fosse fermato a un punto soltanto dai 100. Fu un peccato, perché ne avrebbe sicuramente potuti segnare altri ancora», aggiunge Stankovic. Facile dirlo col senno di poi, ma, riportano le cronache dell’epoca, il santone slavo non volle spremere troppo il suo fuoriclasse e lo tenne in panchina per diversi minuti nel secondo tempo. Statistiche, come detto, non ce ne sono, ma dal referto è facile ricostruire la composizione della sua serata balistica: 11 tiri liberi a segno su 14 tentativi e ben 44 canestri dal campo (non c’era ancora il tiro da tre). “Grazie, compagni”, titolò un giornale di Belgrado il giorno successivo quotando le parole del modesto Korac a fine gara. Ma una punta di amarezza rimase a molti, Radivoj compreso.

Il referto di quella partita mitologica – euroleague.net

«Biondo, lo sai di chi sei figlio tu?»

Nessun Tuco di Jugoslavia si sarebbe mai sognato di rivolgersi così al Biondo che viene da Sombor, nell’estremo nord della Serbia, non lontano dal confine ungherese. Con il Biondo di Sergio Leone, che diventa leggenda proprio negli anni in cui quella di Korac va issandosi nell’empireo del basket mondiale, quello slavo condivide i modi riservati e la mano più che lesta. Chissà se avrà mai trovato modo di rivedercisi nell’ombroso e spietato Clint Eastwood lui che di cinema, musica e arte era grande appassionato. Stando ai si dice, sarebbe addirittura stato lui per primo a far conoscere i Beatles in Jugoslavia, portando con sé, di ritorno in patria alcuni dischi della band inglese acquistati in Belgio durante la sua unica stagione allo Standard Liegi. Li regalò a un’amica, Vlada Krasic, che lavorava a Radio Belgrado e fu così che le note di “Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band” divennero celebri anche oltre la cortina di ferro. Se sia vero o no non lo sapremo mai, ma ciò che è certo è che Korac era uno sportivo davvero sui generis per quell’epoca. Non c’era una “prima” della stagione teatrale di Belgrado che lui saltasse. Ed era un avido lettore, soprattutto dei grandi romanzieri anglosassoni: James Joyce, Norman Mailer, George Bernard Shaw e William Faulkner. Studente di ingegneria elettronica, non riuscì mai a completare gli studi. «Lo farò una volta chiusa la carriera», amava ripetere. Senza sapere che quel foglio di carta al muro del suo studio non l’avrebbe mai potuto appendere.

Il basket lo incontra abbastanza tardi. Inizia a giocarci per caso in Croazia, a Karlovac, durante una visita a dei parenti ed è lì che il “virus” si inocula sotto pelle. Di ritorno a Belgrado continua col calcio seguendo l’esempio del fratello Djordje, ma il basket lo attira e a scuola, nella sua classe, è il più alto di tutti. Quando si gioca lo fanno muovere da centro anche se è alto “solo” 1.93, e non se la cava per niente male perché salta come una molla ed è duro come il marmo quando va a rimbalzo o si incunea nelle difese avversarie. E poi c’è quella mano mancina, che quando si alza sarà pure non bellissima da vedere ma è terribilmente efficace.

Il basket diventa la sua scelta definitiva nel 1954, anno nel quale esordisce con gli juniores dell’Okk. Prima gara di campionato contro il Pancevo: vittoria per 33-28. Punti segnati da Zucko: 33.

Korac a Roseto degli Abruzzi per il Trofeo Lido delle Rose nel 1956 – foto roseto.com

«Aveva una forza fisica tale che, paradossalmente, lo ha molto limitato nella sua crescita tecnica– scrive il leggendario giornalista triestino Sergio Tavcar nel suo libro “La Jugoslavia, il basket e un telecronista – era un giocatore francamente rozzo e molto brutto da vedere. Leggendario mancino, di quelli che con la mano destra non riescono nemmeno a tenere in mano una tazzina, giocava comunque partendo da destra. La sua praticamente unica azione d’attacco era partire in palleggio sempre con la mano mancina (pur, come detto, partendo da destra) ed arrivare molto lentamente, con conquista del terreno di tipo quasi rugbystico, fino a sotto canestro, dove alzava sé stesso e quanti avversari gli si aggrappassero alle braccia per mettere la palla nel canestro… La cosa più frustrante per gli avversari era però che, pur sapendo benissimo cosa avrebbe fatto, non riuscivano mai a tenerlo, proprio perché li spostava fisicamente».

Stankovic ci mette poco a capire che Radivoj deve calcare palcoscenici ben più importanti delle sfide con i suoi pari età e lo lancia in prima squadra nel 1956. Il dominio della Stella Rossa sta traballando, il campionato jugoslavo è alla ricerca della nuova realtà di riferimento e Korac ci mette poco a sprigionare tutto il suo potenziale. Negli anni Sessanta è grazie a lui se l’Okk diventa la nuova padrona di Jugoslavia, portandola a quattro titoli e tre coppe nazionali. Nelle sue prime nove stagioni nel massimo campionato, sette le chiude da capocannoniere, con le seguenti medie:

1957 – 29.1 punti

1958 – 35.2 punti

1960 – 37.0 punti

1962 – 30.5 punti

1963 – 34.5 punti

1964 – 26.3 punti

1965 – 31.6 punti

A sfuggirgli sempre è il grande acuto a livello internazionale, sia con la maglia dell’Okk che con quella della nazionale jugoslava, che grazie a lui, comunque, divenne per la prima volta la potenza internazionale che è stata negli decenni successivi. Alla Coppa dei Campioni non andò mai davvero vicino, non riuscendo a spingere i suoi oltre le semifinali. Ma nel 1965, solo qualche mese dopo la celeberrima partita dei 99 punti, i tempi sembravano maturi per la grande impresa.

Korac è il secondo da destra, con la canotta numero 5 – foto mic.org.rs

Sulla strada per la finale stavolta Korac trova il Real Madrid. In Spagna è una mattanza, la difesa spagnola tiene Radivoj a “soli” 19 punti e i blancos si portano a casa la gara di andata per 84-61. 23 punti sembrano un buon cuscinetto in vista del viaggio a Belgrado, ma non sanno che i serbi stanno preparando loro un bello scherzetto. Non è ben chiaro chi e come sia successo, ma l’orologio della gara viene manomesso prima del via e le lancette scorrono più lentamente del normale, un minuto dura quasi il doppio di quanto dovrebbe. Il Real è forte ma non così lungo in panchina (all’andata solo in 6 erano andati a referto) e allora ecco la trappola. Stavolta Korac è in modalità 99 punti e l’Okk all’intervallo vede all’orizzonte l’impresa: il 45-32 lascia ben sperare, anche perché gli spagnoli perdono pure per strada Sevillano. Korac è una furia e gli jugoslavi salgono fino al +20 (70-50) con ancora 10 minuti (teorici) da giocare e il Real ha già perso per 5 falli anche due delle sue stelle più luminose, Lolo Sainz e Cliff Luyk. La strada sembra spianata per l’impresa e invece il Real resiste strenuamente in una partita che si calcola sia durata effettivamente 113 minuti e limita i danni perdendo solo di 17, 113-96. Korac ne mette 58 (!!!) ma non basta: quel Real sarà la prima squadra occidentale a vincere la Coppa dei Campioni e il Biondo non tornerà mai più così vicino a salire sul trono d’Europa.

È con la maglia della Nazionale, però, che alimenta la sua leggenda, pur non riuscendo mai a salire sul gradino più alto del podio. Il suo palmares vede ben sei medaglie d’argento e una di bronzo, un bottino abituale per i plavi ai giorni d’oggi ma che non lo era per niente solo pochi anni prima dell’esplosione di Korac. Non a caso le sette medaglie che ha collezionato nella sua carriera sono anche le prime sette della storia della Jugoslavia. La prima arriva nel 1961 nell’Europeo organizzato in casa, nel quale Korac è Mvp della manifestazione e capocannoniere a 24,0 di media. Manca solo l’impresa contro quell’Unione Sovietica che era considerata da tutti un’armata imbattibile nel Vecchio Continente: non a caso nel dopoguerra, i sovietici vinsero 11 delle prime 12 edizioni dei campionati europei.

Tra retine crivellate a raffica e una voglia di basket che cresce nei Balcani grazie al suo esempio, c’è un argento che pesa come oro: è quello di Messico ’68, l’Olimpiade che sfatò il mito dell’imbattibilità sovietica e che accese i riflettori sul basket in tutta la Jugoslavia. Korac era riuscito nell’impresa di far piangere l’Urss ai Mondiali del ’63 (ma la Jugoslavia si fermò di nuovo l’argento inchinandosi allo scatenato Brasile), ma aveva spesso rimediato sonore lezioni in tutte le altre sfide di quegli anni. La storia cambiò il suo corso nella semifinale delle accidentate Olimpiadi messicane. Korac era reduce dalla sua prima stagione lontano da Belgrado, a Liegi, ma ovviamente la Jugoslavia non poteva pensare di fare senza di lui nell’assalto alle corazzate Usa e Urss. La semifinale è di nuovo contro l’Unione Sovietica, ma stavolta il finale non è quello di sempre: la partita è tiratissima, Korac la marchia con 12 punti e la Jugoslavia mette ko l’Unione Sovietica di un giovane Sergei Belov.

È finale, è medaglia, è una nuova sfida da vincere: giocarsela contro gli Stati Uniti. È un successo anche dalla grande valenza politica, in un anno nel quale le frizioni tra Tito e Breznev sono ai massimi. La Jugoslavia inneggia ai suoi campioni nel duello a distanza contro la Grande Madre Russia e uno smacco del genere non può che essere accolto come un trionfo di Stato nei palazzi del potere belgradesi. E allora leggenda vuole che nessuno abbia troppo da ridire se Korac e soci si concedono una notte di bagordi nella capitale messicana alla vigilia della sfida per l’oro contro gli americani. Gli Stati Uniti non erano certo nella loro versione migliore, al via della manifestazione erano stati lasciati a piedi da un certo Lew Alcindor (dovreste conoscerlo con il suo nome da musulmano…), che rifiutò la convocazione in protesta contro il razzismo imperante nel suo paese. Ma la sua assenza non fu abbastanza per regalare un sogno alla Jugoslavia: a differenza di Kareem, un Korac raramente così spento in carriera (1 punto con 1/4 ai liberi e 0/1 dal campo) non era ammortizzabile per gli slavi, che ressero l’urto per un tempo prima di crollare nella ripresa e scalfire a malapena il predominio americano.

foto museodelbasket-milano.it

Nessuno si sogna di etichettare come perdente un’autentica leggenda come Korac per non essersi mai infilato una corona in testa. La vera macchia (sportivamente parlando) nella sua carriera da leggenda Korac la trovò soltanto in Italia, dove sbarca nel 1968 per vestire la canotta del Petrarca Padova. In Veneto arriva grazie a quell’Aza Nikolic che in panchina lo aveva pilotato all’Okk e in Nazionale. Agli atleti jugoslavi era consentito di emigrare per motivi sportivi dopo i 28 anni, perché si riteneva che dopo quella età fossero già in parabola discendete. Per questo dopo il Belgio Korac accettò la sfida dell’Italia. Il progetto di farsi pioniere slavo nel nostro basket naufragò però miseramente: Korac fa quel che sa fare meglio, ovvero segnare punti a raffica (chiude come capocannoniere della Serie A a 26.4 punti a partita), ma la preparazione fisica dell’epoca era ben diversa da quella attuale e i gerarchi serbi non ci vedevano male. Anche per Korac stava iniziando l’inizio del declino. Per questo il suo dominio era sterile e la Boario franava drammaticamente domenica dopo domenica. Fino alla mesta sentenza: penultimo posto, retrocessione in B insieme alla Stella Azzurra Roma.

Korac non sa ancora che sarà quel fallimento a rappresentare l’infelice canto del cigno della sua carriera.

Non lo può sapere quando, chiusa quell’annata da dimenticare, lascia la città veneta alla guida del suo Maggiolone in direzione Sarajevo. È l’1 giugno e un suo giovane ex compagno di squadra dei tempi delll’Okk di nome Bogdan Tanjevic e una promessa del basket slavo di nome Kresimir Cosic lo aspettano nella città bosniaca per la festa di fine stagione del Bosna, la squadra di riferimento della città. C’è una partita di esibizione tra la nazionale jugoslava, che sta per iniziare a preparare il nuovo assalto al titolo europeo di fine estate, e una selezione bosniaca. Tanto per cambiare, Korac infila 35 punti e la Jugoslavia vince per 131-93. Con quell’ultima prestazione la sua media in Nazionale si cristallizza a 21.3 punti a gara, appena 0.3 in più del secondo di tutti i tempi: un certo Drazen Petrovic con il quale condivide il tragico destino.

Quello che successe dopo è proprio Tanjevic a ricordarlo in una intervista di qualche anno fa. «Partita, cena e poi via verso un bar della periferia dove Cosic arrivò andando a 170 all’ora sulla sua Audi. Baci, abbracci, i soliti scherzi e persino un whisky per Korac, che era assolutamente un non bevitore, come noi. Progetti per il giorno della partenza la mattina seguente: io e mia moglie volevamo un passaggio, ma lui lo aveva promesso ai tre ragazzi studenti che dovevano tornare presto a Belgrado che potevano contare su di lui. Finì tutto molto tardi. Quando il giorno dopo lui capì che i giovanotti erano saliti su treno a cuccette della notte, non si ricordò di chiamarci nella camera all’hotel Central. Partì da solo».

foto superbasket.it

Il resto è cronaca. Radivoj amava guidare, ma non era un pilota esperto. Aveva preso la patente solo qualche anno prima in Belgio. All’altezza della cittadina di Kamenica, più o meno a metà strada tra Sarajevo e Belgrado, azzarda un sorpasso in un tratto in salita. In senso opposto, però, all’improvviso compare un camion. Lo schianto è tremendo e il Maggiolone di Korac schizza fuori strada. Ranko Zeravica, coach della Jugoslavia, lo precede con la sua auto, vede la scena nello specchietto retrovisore e torna indietro nella disperata impresa di salvarlo. Lo carica in macchina e, insieme alla moglie Zaga, torna verso Sarajevo. Arriva in ospedale, ma è troppo tardi: Radivoj Korac muore quando non ha ancora compiuto 31 anni il 2 giugno 1969. Da quel giorno in Jugoslavia non si gioca più alcuna partita di basket in sua memoria.

Il funerale si tiene il giorno seguente, il 3 giugno 1969, in quel di Sarajevo: un serpentone di persone lungo oltre 2 chilometri accorre per salutare un’ultima volta uno dei figli prediletti della Grande Jugoslavia. Dalla Bosnia il suo corpo viene poi traslato al cimitero di Novo Groblje, a Belgrado, dove riposa tutt’ora: fu il primo sportivo ad essere tumulato nel Vicolo dei Cittadini Illustri, l’area del cimitero dedicata alle personalità più importanti della Jugoslavia allora e della Serbia oggi.

Due anni dopo, nel 1971, l’allora segretario generale della Fiba, William Jones, decide di creare una nuova competizione europea che affianchi Coppa dei Campioni e Coppa delle Coppe: si chiamerà Coppa Korac e il trofeo, che raffigura la mano sinistra di Radivoj al tiro, la realizza il fratello Djordje, che nel frattempo ha lasciato la porta del Radnicki per diventare uno scultore. Nel 2002, quando la competizione fu abolita per lasciare spazio alla Uleb Cup (poi Eurocup), la federazione serba, su proposta dell’Hemofarm Vrsac, decise di rinominare la Coppa di Serbia con il nome di Coppa Korac. E dal 2011, grazie al via libera della Fiba, il trofeo che viene assegnato alla squadra vincitrice è l’esatta replica di quello creato da Djordje.

foto poreklo.rs

In Belgio, durante la stagione 1967/68, Radivoj se la spassava per davvero. La prima volta lontano dalla terra natia in un paese dove era la stella del campionato, un personaggio riconosciuto da molti. Fu così che finì per essere invitato ad una trasmissione televisiva del canale francese (lingua che aveva appreso in pochissimi mesi). Incuriositi dalla sua tecnica di tiro libero a due mani dal basso, i giornalisti belgi gli chiesero quanti canestri avrebbe potuto fare se ne avesse tirati 100 di fila. Con la modestia che lo contraddistingueva rispose «Circa 80». «Puoi dimostrarcelo?», ribatté il conduttore. E in studio apparve un canestro. Korac accettò la sfida, si tolse la giacca e, in camicia e scarpe eleganti, iniziò la sua sfida. 1, 2, 10, 50…

99, come i punti in quella notte magica di Belgrado.

Chissà se un pensiero al momento di tirare il numero 100, dopo averne messi 99 senza alcun errore, sarà volato a quella sera. A quel record mancato. A Wilt che forse di Biondo conoscerà al massimo quello di Sergio Leone.

Di sicuro nulla lo turbò e le sue mani accompagnarono ancora una volta con dolce maestria la palla spicchiata sul fondo della retina.

Ciuff, sono 100.

Ora a Wilt poteva guardare dritto negli occhi.

foto storage.radiosarajevo.ba
Previous

Everybody need some Bodi(roga) to love

Next

La Giornata Tipo del basket ai tempi del Coronavirus

Avatar photo

About Author

Marco Pagliariccio

Di Sant'Elpidio a Mare (FM), giornalista col tiro dalla media più mortifero del quartiere in cui abita, sogna di chiedere a Spanoulis perché, seguendo il suo esempio, non si fa una ragione della sua calvizie.

5 comments

  1. Bellissimo, grazie. Mi rimane un po’ oscuro il significato di questa frase: Da quel giorno in Jugoslavia non si gioca più alcuna partita di basket in sua memoria.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Check Also