Manute: “Solo cash”.
Riccio: “Come solo cash?”.
Manute: “Mi pagano in contanti, ogni mese, è sempre stato così, è una mia volontà”.
Riccio: “Ma con tutti quei soldi in tasca, come fai se li perdi, o te li rubano?”
Manute: “Non mi preoccupo, ho i miei numeri di telefono da chiamare, loro sistemano tutto”.
Riccio: “Ok…”.
“Manute, il momento è arrivato, domani diverrai uomo” così disse Madut Bol nel 1977 a suo figlio Manute, 14 anni, nel villaggio di Turalei, nel Sudan del Sud di oggi, attualmente una delle zone più pericolose del mondo anche dopo la indipendenza raggiunta nel 2011.
Manute e la sua famiglia erano di etnìa Dinka, storicamente nota per la vertiginosa altezza dei propri rappresentanti. La madre di Manute, Okwok, era alta 208 centimetri, il padre Manut e la sorella Achuil entrambi 203, mentre il bisnonno di Manute era addirittura 2.39 centimetri.
Manute era comunque molto restìo a diventare uomo, anche e soprattutto perché la cerimonia implicava l’asportazione di sei denti con uno scalpellino alla mattina, la rasatura della testa con conseguente spargimento di cenere sul cuoio capelluto al pomeriggio, e infine quattro profonde incisioni sulla testa con un coltello affilato la sera, prima della grande festa di celebrazione a cui tutto il villaggio avrebbe partecipato tranne il dolorante Manute.
Suo padre era uno dei vecchi saggi del villaggio, e non poteva permettere che proprio suo figlio si sottraesse a questa cerimonia.
Chi non si sottoponeva al rito era considerato un reietto, schifato da tutti, oggetto di dileggio per immaturità, e soprattutto evitato dalle ragazze del villaggio, e questo Madut non poteva permetterlo. Manute amava i suoi denti, era tra i pochi nel villaggio che li lavava dopo ogni pasto, ma non poteva deludere suo padre, già a 14 anni era tardi, per diventare uomo, la maggior parte dei ragazzi si sottoponeva al rito già dai 12 anni.
Un paio di dozzine di vite dopo quei momenti, Manute Bol divenne un personaggio di rilievo nel mondo dello sport americano e incidentalmente anche nella cultura di massa americana.
La sua dipartita dal Sudan e dai Dinka fu vista dai nativi del suo villaggio e di quella parte sud del Sudan come un abbandono vergognoso e imperdonabile, un affronto irreparabile, come testimonia l’antropologo esperto di culture del centro Africa Francis Madding Deng:
“Per un Dinka, la massima realizzazione è vivere la propria vita assieme alle mucche con entusiasmo e dignità. Chi abbandona il proprio villaggio e le proprie mucche è meritevole solo di vergogna pubblica”.
E dire che Manute, all’età di 15 anni, avrebbe ucciso un leone con la sua lancia (aneddoto da lui stesso raccontato, e ovviamente mai verificato), per difendere le mucche di famiglia, dimostrando grande coraggio e grande attaccamento alla propria famiglia e alle proprie mucche.
Un Dinka ha orgoglio, coraggio, lealtà e amore per la propria terra, e talvolta si comporta da vero eroe.
E nonostante questa sorta di “tradimento” culturale infatti, Manute Bol si comportò esattamente così nei confronti della sua terra, si comportò da vero eroe per il Sudan del Sud, durante la sua permanenza negli Stati Uniti e dopo la fine della sua carriera di atleta.
Manute Bol non ha mai dimenticato la sua terra, per decenni afflitta da una sanguinosissima guerra civile.
Con la sua Fondazione, la Ring True, Bol, tramite svariate iniziative nel corso degli anni, ha raccolto circa 35 milioni di dollari, interamente donati ai profughi e alle minoranze cristiane del Sudan del Sud. Frequenti sono stati i suoi viaggi in Sudan dopo la fine della sua carriera, viaggi sempre all’insegna della solidarietà verso i suoi compatrioti, dove fu sempre accolto con entusiasmo e devozione dalla sua gente.
Il 20 agosto 1998 però, dopo l’attacco americano alla fabbrica farmaceutica Al Shifa di Karthoum, in piena guerra civile tra il National Islamic Front, governativi, e la Sudan People’s Liberation Army del Sudan del Sud, sostenuta da Bol, Manute, in quel periodo a Karthoum, venne accusato di collaborare con i Servizi Segreti statunitensi e di essere implicato nella vicenda, così a lui e alla sua famiglia venne revocato il permesso di lasciare il Sudan. Da lì cominciò il lungo calvario diplomatico della famiglia Bol (che vide anche la nascita il 16 novembre 1999 a Karthoum del figlio di Manute, Bol Bol, ora in NBA con i Denver Nuggets), costretti a rimanere in Sudan fino al 2001, quando grazie al lavoro diplomatico soprattutto del Senatore Democratico Joseph Lieberman, la famiglia Bol ebbe la possibilità di trasferirsi prima al Cairo in Egitto, e poi finalmente di ritornare negli Stati Uniti.
Manute, a dispetto delle movenze, della curiosa postura e del sorriso a mille denti, è un duro.
È abituato a fare a botte fin da ragazzino.
Basta un minimo accenno di provocazione e il combattimento si consuma immediatamente, tra i giovani Dinka, era un rituale consolidato.
Una palestra nella savana.
Una volta lasciato il villaggio e trasferitosi a Wau prima, e a Karthoum (capitale del Sudan) poi, iniziando a giocare a basket seppur a livelli non professionistici o di qualità, Manute quasi giornalmente faceva mulinare calci pugni e bastonate (con il suo ramo personale, appositamente attrezzato per autodifesa che si era portato dal villaggio). Gli accadeva spesso, in città, un po’ con chiunque, con chi lo prendeva in giro per l’altezza, con chi lo dileggiava per la provenienza dal Sudan del Sud, una volta a Karthoum scoppiò una rissa mentre stava assistendo ad una partita di pallamano, e Manute si ritrovò nella bolgia a prendere a sediate in testa persino una signora. Tutto questo per dire che Manute Bol non era certo un fenomeno da baraccone o un personaggio portato negli Stati Uniti da un qualche guru del marketing primordiale o genio pubblicitario. Manute era un duro vero, e un prospetto cestistico importante, una vera e propria visione di coach Don Feeley della Fairleigh Dickinson University, avvezzo a tenere camp in Africa e grande ricercatore di talenti. Manute infatti, spronato da suo cugino, cominciò a giocare a basket, e una volta a Karthoum ci mise pochissimo ad arrivare alla nazionale sudanese, e fu proprio con quella maglia che il coach lo vide. Feeley lo portò a Cleveland nel 1982 per farlo giocare alla Cleveland State University. Non sapendo quale fosse la data di nascita di Manute, il coach di Cleveland State Kevin Mackey si inventò il 16 ottobre 1962 per iscriverlo alla università. Bol però, che quando arrivò a Karthoum conosceva solo la lingua Dinka e sapeva solo scrivere il suo nome, ovviamente non sapeva una parola di inglese, e non riuscì a ottenere la borsa di studio per Cleveland State, rimanendo comunque in Ohio a giocare partite amichevoli e ad imparare l’inglese.
Nella primavera del 1983 Bol, dopo aver impressionato alcuni scout, si dichiarò eleggibile per il Draft NBA, e venne scelto dai San Diego Clippers del philadelphiano doc Jim Lynam alla 97sima chiamata.
In quella occasione, Lynam raccontò questo simpatico aneddoto:
“Guardai il passaporto di Bol, e c’era scritto che era alto 1.59. Perplesso, lo guardai, ovviamente verso l’alto, e gli chiesi spiegazioni. Lui mi rispose ‘quando mi hanno misurato l’altezza, l’ufficiale della polizia mi ha fatto sedere e ha preso la mia altezza da seduto’”.
La chiamata dei San Diego Clippers venne però revocata dalla NBA, perché Bol non si dichiarò eleggibile nelle tempistiche giuste, quindi Manute dovette rinunciare a un contratto NBA e trovarsi un altro college dove sviluppare il proprio inglese e ovviamente il suo gioco, optando per un college di NCAA Division II, la Bridgeport University in Connecticut, università con un programma per studenti stranieri molto importante.
Nella sua unica stagione in Connecticut Manute totalizzò ottime cifre, 22.5 punti, 13.5 rimbalzi e 7.1 stoppate a partita, portando i Purple Knights al Torneo NCAA Division II e diventando una vera e propria attrazione, attirando migliaia di persone a vedere le partite casalinghe e in trasferta.
Nell’estate successiva Manute venne scelto dai Washington Bullets con la trentunesima chiamata assoluta all’NBA Draft del 1985, dimostrando di essersi ambientato bene negli Stati Uniti, e di aver imparato perfettamente la lingua inglese.
Il coach dei Washington Bullets all’epoca, Kevin Loughery, rimase subito impressionato dalla capacità di adattamento alle situazioni e ai contesti di Manute Bol:
“Se lo vedessi ora e non sapessi da dove viene, direi che è uno che arriva da Newark, o da South Chicago, Manute è un ragazzo molto sveglio”.
La sua prima stagione nella NBA fu incidentalmente la migliore della carriera, rimanendo lontano dagli infortuni (che avranno purtroppo un ruolo fondamentale nella sua carriera), giocando il più alto minutaggio della carriera (26.1 minuti a partita) e risultando immediatamente il miglior stoppatore della stagione, con una media di 5 stoppate a partita per un totale di 397 stoppate, mettendone a segno da solo più di dieci squadre NBA nella loro totalità di giocatori.
Manute divenne un fenomeno anche mediatico, venne ingaggiato come testimonial da parecchie grandi aziende americane in tutti i settori, le arene dove giocavano i Bullets, seppur una squadra da record perdente, si riempivano per vedere il giocatore più alto della NBA proveniente da quel paese lontano.
Jayson Williams, suo compagno di squadra durante i primi due anni a Washington, ha raccontato un aneddoto curioso sull’età del giocatore sudanese, dichiarato ventottenne quando ha iniziato a giocare per i Sixers nel 1990:
”Diceva di avere 35 anni, ma vedevo sempre delle cicatrici intorno alla sua testa quando sedevo in panchina vicino a lui. Così un giorno gli chiesi: ‘Manute, cosa sono queste cicatrici sulla tua testa?’ (quelle della transazione per diventare uomo citata in precedenza). Lui rispose: ‘I ‘bianchi’ hanno perso il mio certificato di nascita nella giungla, perciò ogni cinque anni faccio un segno sulla mia testa con una pietra.’ Al che io risposi: ‘D’accordo.’ Tuttavia, la partita successiva le osservai attentamente e mi dissi: ‘Manute Bol ha cinquantacinque anni!'”
Le stagioni successive per Bol non furono così entusiasmanti a livello di riconoscimenti sul campo, Manute continuò ovviamente ad essere un grande stoppatore, ma i problemi fisici, soprattutto alle ginocchia, continuavano ad affliggerlo, assieme alle difficoltà a trovare prolungati minutaggi di qualità.
Quindi con l’andare delle stagioni Manute divenne una sorta di giocatore culto, anche quando cominciò a cimentarsi nel tiro da tre punti, quando veniva letteralmente “chiamato” dal pubblico a tentare una tripla.
Dopo tre stagioni ai Washington Bullets Manute venne ceduto ai Golden State Warriors, due stagioni nella Bay Area, per poi approdare ai Philadelphia 76ers, dove rimase per altre tre stagioni.
A Philadelphia i Sixers hanno cercato in tutti i modi di fargli prendere peso, anche dandogli il via libera per bere birra senza ritegno, ottenendo però di incrementare, semmai ce ne fosse stato bisogno, la sua “stima” nei confronti della birra.
Poi Miami Heat per una stagione, e i ritorni a Washington, Philadelphia e Golden State, giocando sempre scampoli di partite in scampoli di stagioni, ormai quasi mai nella condizione fisica ottimale per reggere quel livello di intensità.
Bol terminò la sua carriera NBA dopo 10 stagioni con 2.6 punti, 4.6 rimbalzi e 3.34 stoppate di media a partita, cifre relativamente non di gran rilievo, ma si può e si deve ovviamente ricordare il fatto che Manute Bol è e rimane il miglior stoppatore di tutti i tempi della NBA in rapporto ai minuti giocati (8.6 stoppate per 48 minuti giocati), e il secondo di tutti i tempi per media stoppate a partita, dietro solo a Mark Eaton, e detiene i record per stoppate in un tempo, 11, e per stoppate in un quarto, 8.
Charles Barkley una volta, schietto e diretto come sempre, disse di lui:
“Molti compatiscono Manute perché è così alto e magro, ma vi dico una cosa. Se nel mondo fossero tutti come lui, sarebbe il mondo in cui vorrei vivere”.
Dopo la NBA Manute giocò con i Florida Beach Dogs nella CBA, e con i Portland Mountain Cats nella USBL, sempre con alterno rendimento, prima di approdare in Italia alla Montana Libertas Forlì, chiamato dal compianto Massimo Mangano, allenatore da sempre visionario e curioso delle sperimentazioni con giocatori atipici.
Durante la sua breve permanenza in Romagna (fu tagliato dopo sole due partite di campionato), i racconti di Maurizio “Riccio” Ragazzi, ex ottimo giocatore di Napoli, Treviso, Roma, Livorno e appunto suo compagno di squadra a Forlì, sono molto esaustivi a riguardo della sua personalità:
“Manute era un persona di una qualità intellettiva veramente alta, un uomo dalla personalità fortissima dotato di una grande leadership, politicamente impegnato ma allo stesso tempo istrionico e amante della bella vita. Teneva un book personale dove raccoglieva tutte le foto che aveva fatto con grandi star incontrate a questi party, tipo Madonna o Jack Nicholson, ma anche con grandi giocatori come Kareem Abdul Jabbar, Magic Johnson e Charles Barkley, tra l’altro suo grande amico. Non c’era party, a New York, o a Los Angeles o ovunque lui andava a giocare, che non lo vedesse come la star della serata. Quando ci raccontò la storia del leone infilzato con la lancia, eravamo io e Gerrod Abram (classico journeyman che ha giocato in Italia con le casacche di Forlì, Castelmaggiore, Imola, Sassari e Barcellona, oltre che con Cibona Zagabria e Girona). Ascoltando la storia, Abram si sbellicò dalle risate, non credendo neppure ad una sola parola, mentre Manute era serissimo e continuava a raccontare, noncurante del nostro scetticismo”.
Durante il suo periodo italiano, assieme a Ragazzi e Abram, Manute Bol fece una esperienza singolare.
I tre vennero chiamati dalla stilista Chiara Boni per sfilare sulla sua passerella a Milano Moda, bella intuizione della stilista, che disegnò tre vestiti per le loro taglie, anche se ovviamente era Manute la vera star della serata. Quando uscì dal backstage per inoltrarsi sulla passerella tutte le attenzioni erano per lui, tutti gli occhi dei presenti, occhi comunque avvezzi allo stile, alla bellezza, al portamento e alla grazia, erano per quell’uomo infinito, che non sfigurava affatto in mezzo a quei professionisti della moda, e anche dietro le quinte, Manute riscuoteva grande successo e curiosità, con tutte le modelle che volevano farsi fotografare con lui.
Ancora Riccio Ragazzi su Manute:
“Non era mai in imbarazzo in mezzo alla gente, era sempre a proprio agio nonostante la deambulazione sempre e comunque problematica. Era una persona curiosa del mondo, avido di conoscenza, oltre ad essere un grande amante della birra (Sixers docet, ndr)! Per lui non esisteva la bottiglietta o la lattina normale, per lui esisteva solo dalla 0.66 in su. Abbiamo abitato nella stessa casa per il periodo in cui lui è stato a Forlì, abitavamo nella zona del vecchio aeroporto, una zona non molto viva, e sotto casa c’era un bar, l’unico bar del quartiere, dove io mai avrei pensato di andare. Lui invece insisteva ‘dai andiamo giù al bar a bere qualcosa’. Una volta al bar si appassionò al gioco delle boccette, per l’entusiasmo degli avventori che lo vedevano con il suo lunghissimo braccio mettere il boccino direttamente nel mezzo dei birilli dal lato corto del biliardo, sempre con la birra in mano. Il giorno dopo la gente in giro mi fermava per strada chiedendomi di lui ‘oh ma dov’è lui là?? E’ troppo forte!’.
(reperto storico di Tele+ con Flavio Tranquillo: grazie a Riccardo Girardi e tutta la Tribù di WhatsBasket)
Prosegue ancora Riccio:
“Manute aveva una forte personalità e una spiccata tendenza alla leadership. Era schietto in spogliatoio, amava stare in mezzo ai compagni ma anche assieme allo staff, ai dirigenti e ai tifosi, era comunque un animale sociale, ed era sempre pronto a spendere una parola con tutti, anche se, va detto, non aveva il ‘fuoco sacro’ per il gioco del basket. Altra cosa particolare era che Manute non guidava, non ha mai guidato una macchina, ovviamente non ha mai preso la patente. Manute Bol era il classico esempio di persona che ovunque la mettevi era a proprio agio, in qualsiasi situazione e qualsiasi contesto, con calma, gentilezza ed educazione”.
Un approccio alla vita molto tranquillo, una idea del tempo che scorre assolutamente non occidentale, in una vita che dovrebbe, secondo i nostri canoni, scorrere frenetica e sempre di corsa.
Eppure Manute Bol si è trovato perfettamente a proprio agio negli Stati Uniti, patria che ha scelto per diffondere le denunce delle atrocità commesse dal governo nel suo Sudan, e per diventare un attivissimo attivista per i diritti civili.
Manute era uno di quei giocatori che lasciano il segno nel gioco, non solo per le eventuali vittorie, per le performances, per le abilità o disabilità sul campo o fuori dal campo, ma anche per la propria storia, per il proprio pregresso, e lo sviluppo della propria carriera in funzione delle proprie peculiarità.
Manute Bol morì il 19 giugno 2010 a Charlottesville in Virginia, a causa di complicazioni renali dovuti alla sindrome di Stevens-Johnson, una malattia rara contratta durante uno dei suoi viaggi in Africa.
Celebrate Manute Bol’s #NBABDAY with his son @BolBol as he reflects back on his father! pic.twitter.com/qQpa1udBTd
— NBAIndia (@NBAIndia) October 16, 2019
Nonostante la malattia fosse in stadio avanzatissimo, Bol due mesi prima della morte fece una lunghissima campagna elettorale in Sudan in favore di Salva Kiir Mayardit (attuale Presidente del Sudan del Sud) e del suo partito, per portare finalmente a compimento il referendum sull’Indipendenza del Sud.
Viaggi massacranti di villaggio in villaggio nella savana, lungo strade impraticabili attraverso mille pericoli e traversìe, in una situazione totalmente agli antipodi dalle comodità della sua vita americana.
Ma seppur gravemente malato, Manute Bol continuava imperterrito a presenziare agli incontri, stringendo mani, parlando con la gente, sorridendo e toccando con mano il popolo, il suo popolo, che di lì a pochi mesi avrebbe finalmente visto l’indipendenza, nel gennaio del 2011.
Ma Bol sfortunatamente non fece a tempo a vederla.
Una fine sfortunata per un messaggero con una missione, un uomo vero e straordinario, un gigante e un campione dentro e fuori dal campo, una persona generosa, gioviale, espansiva, onesta, che ha dato tutto, ma veramente tutto, al proprio popolo.
Stupendo racconto, grazie!
Davvero un gran bel racconto e una grandissima storia
Grazie per questo racconto, svela il carattere di un vincitore nello Sport e nella Vita.