Un’offesa a Charles Dickens, tratta da una storia di poco falsa.

La pioggia aveva appena iniziato a battere sulle alte finestre della palestra, ma il rumore fu presto sovrastato dal fragore del pallone che si infrangeva sul primo ferro.

Bryant avrebbe voluto mettersi le mani nei capelli, ma ormai persino questo gesto gli era precluso. Dall’orgoglio e dalla calvizie, in egual misura.

Schioccò la lingua, recuperò il pallone e tirò di nuovo: solo rete, questa volta. Ma l’espressione di Bryant era rimasta accigliata.

Molti dicevano di Bryant che fosse eccessivamente duro, eccessivamente severo ed eccessivamente distante nei rapporti con i compagni. I rookies dei Los Angeles Lakers, negli angoli più oscuri dello spogliatoio, ripetevano con voce tremante leggende che parlavano di playmaker fustigati per ore con degli asciugamani dal Venerabile Sacre per aver chiesto troppo palla e di pivot che si erano rifiutati di portare il blocco, finendo sepolti vivi sotto il pitturato dello Staples Center.  E nessuno osava dire ad alta voce il nome di Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato.

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Bryant segnò un’altra tripla, e gettò lo sguardo dall’altro lato del campo. I suoi compagni avevano terminato la partitella, e stavano concludendo in gloria l’ultimo allenamento prima di Natale gustando due tipiche specialità natalizie della California: panettone e prosecco trevigiano.

Tutti bevevano, mangiavano e si facevano gli auguri: Roy Hibbert, nonostante la mole, era sbronzo al primo bicchiere, e aveva rapito l’allibito Marcelino Huertas in un flamenco gitano, nonostante quest’ultimo cercasse invano di spiegargli di essere brasiliano; Nick Young, invece, andava in giro chiedendo di chi fosse il compleanno e a chi stessero facendo gli auguri.

Bryant scosse la testa e tirò ancora: airball.

Buon Natale, Kobe!”

A parlare era stato D’Angelo Russell, seguito a breve distanza da Lou Williams, quest’ultimo con l’intera bottiglia di prosecco in mano.

Ma che Buon Natale e Buon Natale, abbiamo vinto 5 partite in 3 mesi” rispose Bryant, burbero.

Dai su, non fare così. Almeno a Natale, che è un momento di gioia, rilassati. Toh, prendi un po’ di prosecco. Non pensare alle vittorie, per una volta” ribatté allegramente Lou, agitando la bottiglia.

No, no, ci penso sì alle vittorie. Ditemi voi se è possibile arrivare a Natale con un record del genere, siamo i fottuti Lakers, anche se tutti sembrano esserselo dimenticato. Tieniti il prosecco, te lo bevi stasera a cena” Replicò Bryant, duro.

Lou Williams si rabbuiò, al pensiero dell’imminente cena di Natale con le sue due splendide fidanzate, e le assai meno splendide suocere, e si allontanò con aria depressa iniziando già tracannare il prosecco.

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Bryant rivolse la sua attenzione al rookie, che aveva assistito in silenzio a quello scambio di battute.

Tu hai già finito di allenarti?” gli domandò con tono inquisitorio; Dopo un momento di esitazione, Russell annuì contrito.

Ero venuto ad invitarti al pranzo di squadra di domani, prima della partita coi Clippers” disse, in tono timoroso. “Ci saranno tutti! Persino Anthony Brown, e non è stato facile perché nessuno sa chi sia e abbiamo dovuto spulciare tutto l’elenco telefonico per trovare il numero. Tuttora non siamo convinti che sia quello giusto, a dirla tutta” aggiunse, mentre Bryant scuoteva la testa.

Pranzo di squadra prima della partita? Ma neanche in prima divisione fanno robe del genere. Guarda, lascia stare, preferisco allenarmi.” rispose al rookie con tono piccato, e si girò per lanciare un’altra tripla: ferro dietro. Russell fece per dire qualcosa, ma poi scosse la testa e si allontanò, raggiungendo Lou Williams che si era fermato ad aspettarlo e mormorandogli qualcosa.

Intanto, qualcuno aveva lanciato un bicchiere mezzo pieno di prosecco in testa a World Peace, che dormiva in panchina:quello si svegliò infuriato, con una sensazione di déjà-vu e la vena già chiusa, e si avventò sull’intero roster, mandandolo in rotta verso gli spogliatoi e causando 250.000 dollari di danni a immobili e persone.

***

Era ormai tarda sera quando Bryant rientrò nella sua umile villa di Los Angeles, con l’umore cupo e mille pensieri che gli si affollavano in testa. Non era cattivo, in fondo. Voleva vincere, sempre e comunque. Pretendeva molto dagli altri, certo, ma non più di quanto pretendesse da se stesso. D’altro canto, però, come poteva pretendere dagli altri quello che nemmeno lui era più in grado di dare?

Un tempo poteva contare almeno sulle proprie capacità: se la squadra non girava, se la prendeva sulle spalle e la portava alla vittoria lui, anche a costo di segnare 81 punti. Ma ora persino il suo corpo lo aveva abbandonato, e non era più in grado di fare tutto da solo. Talvolta, neanche di fare la sua parte. Per questa e altre ragioni aveva deciso, poco tempo prima, che questa sarebbe stata la sua ultima stagione, ma vedere la Sua franchigia ridotta in questo stato – cinque misere vittorie in tre mesi – e terminare la sua carriera in modo così inglorioso gli procurava una grande sofferenza.

Per non parlare di quel maledetto sesto anello che non sarebbe mai arrivato.

E loro volevano che pensasse al Natale, a rilassarsi e a divertirsi…!

Di questo passo avrebbe dovuto rimandare il ritiro, non poteva lasciare la squadra in mano a quegli incompetenti, nonostante la sola idea di disputare un’altra stagione a questi ritmi lo facesse sentire già stanco.

Tra queste e altre rimuginazioni, Bryant finì con l’assopirsi, e senza accorgersi sprofondò nella sua comoda poltrona in pregiata pelle di Kwame Brown.

Era notte fonda quando fu svegliato dal rumore. Uno scricchiolio, come di catene che sferragliavano, che sembrava trascinarsi su per le scale che portavano alla sua camera da letto. Eppure in casa non c’era nessuno!

Bryant si stropicciò gli occhi, e ascoltò con più attenzione: probabilmente era solamente un’eco di ciò che stava sognando, e aveva creduto di sentirlo.

Ma lo udì di nuovo il cigolio, che anzi sembrava farsi sempre più vicino. Che fossero ladri? Come potevano aver passato la sicurezza?

Fece per afferrare il cellulare, quando la porta della camera si spalancò improvvisamente. Una brezza gelida pervase la stanza, e dalle tenebre emerse una sottile figura evanescente, che si fermò sull’uscio.

Bryant rimase paralizzato dal terrore per qualche momento, ma dopo aver messo a fuoco l’apparizione gli parve di individuare un viso conosciuto.

Steve Nash?” mormorò con tono sbalordito.

Proprio io” rispose l’apparizione in un sussurro.

Che cazzo ci fai qui? Tu ti sei ritirato!” domandò Bryant a bruciapelo, osservando meglio la figura.

Sono qui per aiutarti, Kobe” rispose lo Spettro di Nash in tono mite, avvicinandosi in una sinfonia di scricchiolii.

Aiutarmi? Come puoi aiutarmi? Hai forse rapito Anthony Davis?” disse Bryant, sarcastico.

No, Kobe. Sai che noi Canadesi siamo pacifici” rispose lo Spettro ridacchiando. “Piuttosto, è ora che tu la smetta di essere così severo con te stesso. La tua carriera sta per finire, dovresti goderti gli ultimi momenti che ti rimangono sul parquet piuttosto che angustiarti in questo modo”  gli disse, fluttuandogli vicino.

Bryant sbuffò.

Quando gli ultimi momenti che ti rimangono sul parquet vanno condivisi con Nick Young, c’è quasi da essere contenti che siano gli ultimi.>>

Poi ebbe un momento di esitazione.

E anche io non sono più quello di un tempo, sai” ammise a malincuore.

nash Lo Spettro di Nash  si adagiò su un pregiato sgabello in stinchi di Chris Mihm.

È normale, è il cerchio della vita. Come nel Re Leone, ma con più airball” disse con tono canzonatorio. Bryant gli lanciò uno sguardo di fuoco “Ma cosa ti importa, poi, dell’ultimo anno di carriera?” continuò lo Spettro. “Non ricordi più quello che sei stato in grado di fare nel corso delle stagioni?”

Bryant stava per ribattere, quando si accorse di non essere più nel buio della sua camera da letto.  Era su un campo da basket, vestiva la casacca dei Lakers e davanti a lui c’era Jason Kidd, con la maglia dei Suns. Il cronometro recitava sette secondi. Bryant si vide puntare forte a destra, mandare fuori tempo Kidd con un crossover e attaccarlo a sinistra, alzarsi per il tiro del vantaggio con 2.6 sul cronometro e realizzarlo, nonostante Kidd fosse accorso a contrastarlo assieme ad un altro avversario.

Lo scenario cambiò: ora si trovava contro gli Spurs, e cercava di farsi dare palla da Derek Fisher; col punteggio in parità e pochi secondi sul cronometro, l’insubordinato D-Fish si prese un jumper, che rimbalzò sul primo ferro. Si vide andare a strappare il rimbalzo in attacco e appoggiarla dolcemente a canestro in mezzo a David Robinson e Tim Duncan, neanche fossero Brontolo e Cucciolo.

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Poi le immagini iniziarono a susseguirsi molto velocemente e a confondersi: si mentre bombardava di tiri i Kings di Webber e Jason Williams, rimontava i Suns dello stesso Nash, duellava – a più riprese – con gli Spurs di Tim Duncan; si vide anche mentre era “solo sull’isola” contro i Celtics di Pierce, Garnett e Ray Allen, prima che le immagini divenissero troppe per riuscire a distinguerle con chiarezza.
Cinque titoli, due ori olimpici, due titoli di MVP delle finali, uno di MVP della regular season, 17 volte All Star, record – e sogni dei tifosi dei Kings – infranti senza pietà; e tu stai qui a preoccuparti dell’ultima stagione?” lo rimbeccò la voce dello Spettro.

Bryant rimase in silenzio per qualche momento. Tutte le sue vittorie, i suoi buzzer-beater, le sue giocate gli scorrevano davanti agli occhi, singolarmente indistinguibli ma in qualche modo sincronizzate, unite da un’unica armonia, come se fossero tessere di un mosaico più grande di cui non riusciva, però, a scorgere il motivo principale.
Forse hai ragione” ammise Bryant controvoglia. “Ma se ho ottenuto tutto questo è stato perché ho sempre cercato di ottenere il massimo, anche con le circostanze più sfavorevoli”.

Lo so bene” rispose la voce dello Spettro. “Però il massimo l’hai già ottenuto. Ormai il sole sta tramontando, e non puoi illuminare il cielo con una lampadina. Forse è ora di ammirare le stelle, e lasciare che siano loro ad illuminarlo”.

Bryant rimase interdetto, per un momento. “Per caso hai trovato qualche vecchio pacco di “erbe aromatiche” di coach Jackson?”

Lo spettro di Nash ridacchiò. “Il mio tempo è finito, Kobe. Ho appuntamento con lo spettro di Massimo Ambrosini per andare a giocare a calcetto. Pensa a quello che ti ho detto”.

Bryant si accorse di essere di nuovo nella sua camera da letto, con lo Spettro accanto a lui che si allontanava, schricchiolando, verso il centro della stanza.

Si può sapere che cosa sono tutti questi rumori? Sei uno di quegli spettri con le catene o roba simile?” gli chiese Bryant.

Lo Spettro di Steve Nash sorrise prima di rispondere.
Dicono che le catene degli spettri simboleggino i vizi che le hanno imprigionati in vita. Il mio vizio più grande è stato uguale al tuo: cercare di dare il massimo in ogni circostanza. E di conseguenza, non sono catene a causare tutti questi scricchiolii, ma la povera schiena che ho martoriato sui parquet”.

Poi fece un gesto di saluto, sorrise nuovamente e sparì.

***

Bryant rimase al buio, pensieroso, a massaggiarsi il ginocchio sinistro: effettivamente, per quanto non fosse ancora evanescente, anche lui emanava una più che discreta dose di scricchiolii e rumori vari.
“Evidentemente devo star sognando”, si disse Bryant, “devo aver visto troppi turnover in allenamento e ora ho gli incubi”.
Non fece in tempo a riflettere ulteriormente sull’esperienza che aveva appena vissuto, perché i suoi pensieri furono interrotti da un tonfo proveniente dal soffitto. Non c’era un piano superiore, né una cantina, perciò il rumore doveva provenire direttamente dal tetto.

Ho capito che stanotte dormirò poco” mormorò tra sé e sé Bryant, con tono sconsolato. Intanto si udirono altri tonfi, con ritmo regolare. Sembravano quasi dei passi.

Doveva esserci qualcuno sul tetto! Altro che spettri, stavolta potevano essere davvero dei ladri o peggio. Come dei fan sfegatati a caccia di cimeli.

Non ebbe bisogno di domandarsi ancora a lungo la causa del rumore, perché improvvisamente sentì il suono di più crepe che si formavano nel soffitto e nel giro di qualche secondo si vide piombare in mezzo alla stanza metà del tetto.

Bryant balzò in piedi allarmato, emettendo un grido per la sorpresa. In mezzo ai calcinacci, una gigantesca figura vestita di rosso si agitava debolmente. “Ho, ho, ho!” disse la figura, tossendo.

Bryant, che stava per avventarsi sulla figura brandendo un tutore per il ginocchio – il primo oggetto contundente che gli era capitato sottomano – si fermò un attimo. Vuoi vedere che…?

Intanto la figura si rimise in piedi, scrollandosi calcinacci e polvere dal petto. “Buon Natale, Kobe. Sei stato buono quest’anno?” disse in tono allegro.

“Dammi UN SOLO MOTIVO perché tu dovresti essere qui la notte della vigilia di Natale” rispose Bryant minaccioso.

“Beh, immagino tu lo sappia. Viaggio per portare doni a t…” iniziò a dire la figura, ma Bryant lo interruppe.

“Babbo Natale non è alto due metri e sedici, non pesa approssimativamente 146 chili e non è nero”.

“Perché devi essere discriminatorio? Da piccolo ho sempre creduto che Babbo Natale fosse nero” disse Shaquille O’Neal, imbronciandosi.

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Vai al dunque e spiegami cosa ci fai in casa mia, assieme a metà del tetto” ribatté Kobe con aria truce.

Shaq si tolse un granello di polvere dalla spalla sinistra, ed esibì un sorriso birbante.
In realtà cercavo il camino, per poter fare un’entrata tradizionale, ma prima che riuscissi a individuarlo ho trovato direttamente te”.

“A pochi chilometri da qui c’è il mare, idiota, perché mai dovrei avere un camino?” rispose Bryant ” Sai che dovrai ripagarmi tutto, vero? Era murato in preziosissimi mattoni tirati da Vander Blue”.

Shaq si avvicinò, ciondolante. “Su, su, ti ripagherò tutto” disse in tono conciliante, affibbiandogli una pacca sulla spalla che quasi lo fece rovinare a terra. “Ti ripagherò con qualcosa di estremo valore: la mia saggezza. Non per niente mi chiamano The Big Aristotele”.

“TU chiami te stesso The Big Aristotele” precisò Bryant. “E comunque di che diamine stai parlando? Inizia piuttosto a darmi i dati della tua assicurazione…” 

Bryant non fece in tempo a concludere la frase, perché si accorse di non essere più nella sua devastata camera da letto.

Si trovavano nella training facility dei Lakers: vide i suoi compagni che festeggiavano con panettone e prosecco e vide se stesso tirare triple dall’altro lato del campo.
“Dove siamo?” chiese Bryant, pur conoscendo la risposta. “A Betlemme, mi sembra evidente”gli rispose Shaq, sprezzante.

Bryant fece per replicare ma la sua attenzione fu attirata da Lou Williams , D’Angelo Russell e Jordan Clarkson, che si erano fermati a confabulare proprio accanto a loro, senza apparentemente notarli.
Date retta a me, lasciatelo stare” stava dicendo Clarkson. “È di pessimo umore, gli darete solo fastidio”.

Ma dobbiamo dimostrargli che ci teniamo a lui! È la sua ultima stagione, dopotutto. Visto che di vincere non se ne parla, almeno cerchiamo di fargli compagnia” rispose Lou Williams, accorato.

“Per me sarebbe meglio lasciarlo sulle sue, ma fate come credete” Clarkson scosse le spalle e si allontanò.

“D’Angelo, tu invitalo al pranzo di squadra” disse Lou al rookie. “Sai che in fondo sei un suo pupillo, magari ti darà ascolto” concluse strizzandogli l’occhio e dandogli una pacca sulla spalla. I due poi si avviarono verso l’altra metà del campo.
Vedi come sono affezionati i tuoi compagni?” disse Shaq, pungendolo col gomito. Bryant gli borbottò di tacere. Intanto Lou Williams stava già tornando verso il loro lato della palestra, sconsolato.

“Hai sempre avuto la fissa di fare il sergente maggiore, ma almeno adesso potresti rasserenarti un po’, non credi?” gli disse Shaq in tono soave. Bryant si limitò a scrutare dall’altro lato della palestra con sguardo accigliato.

Poco dopo Lou fu raggiunto anche da Russell, anch’egli un po’ abbattuto. “orse ha ragione Jordan, dopotutto. Meglio lasciarlo stare” disse Williams al rookie.

“No, il fatto è che non sopporta di perdere. Basterebbe vincere qualche partita per farlo felice” gli rispose Russell.

“Beh ma che colpa ne abbiamo noi se gli altri hanno roster miglior”  Lou Williams si grattò il mento.

“Dovrebbe prendersela con il coach, e con quei fessi del front office” disse convinto. “Noi, qui, siamo tutti sulla stessa barca. Già a nessuno piace perdere, se poi dobbiamo pure romperci i coglioni a vicenda è finita per davvero”.

I due si allontanarono verso lo spogliatoio, continuando a confabulare. Shaq lanciò a Bryant uno sguardo eloquente, senza ricevere risposta.

I due furono di nuovo nella camera da letto, che era stata in qualche modo ripulita da polvere e calcinacci. Lo squarcio nel tetto non c’era più.
“Non voglio farti la predica, anche se potrei” gli disse Shaq in tono leggero.

“Non ho bisogno di prediche” reagì Bryant. “Se sono sempre stato severo, è perché bisogna dare il massimo per vincere. Non ci si può distrarre, pensare a feste e roba simile quando si sta perdendo così tanto”.

“Lou Williams non aveva tutti i torti” rispose Shaq, accarezzandosi la pancia vestita di rosso. “Loro hanno poche colpe, e odiano perdere quasi quanto te. Rendergli la vita difficile non migliorerà le cose, ma otterrai solo di rovinare il fegato a tutti”.

Bryant non rispose, ma mantenne un’espressione dura.
Beh, è tempo che vada” disse Shaq schioccando le dita. “Ho ancora 5 miliardi di bambini da raggiungere. Ah, e Kobe..”  si interruppe, fissando Bryant per qualche momento. “..non era affatto male quell’alley-oop che mi hai lanciato contro Portland” riprese, in tono serio.

Bryant si fece scappare un mezzo sorriso. “Hai ragione, non lo era”.

Shaq ridacchiò, e poi sparì dalla stanza. Poco dopo Bryant udì di nuovo la sua grassa risata risuonare nella notte, e un tintinnare di campanelle allontanarsi dal suo tetto.

Forse Babbo Natale era nero per davvero.

***

Bryant si mise a letto, sfinito. L’indomani c’era da giocare contro i Clippers, e invece di dormire per arrivare fresco e riposato si ritrovava a disquisire con Steve Nash Eterei e presunti Shaq-ta Claus.
Era comunque rimasto colpito da quanto gli avevano detto i suoi ex compagni di squadra.
Forse era davvero ora di rilassarsi, anche se le vittorie erano poche. Forse era davvero ora di essere più conciliante con i compagni, e soprattutto con sé stesso.
Forse…

Bryant sprofondò nuovamente in un sonno profondo, senza sogni. Si svegliò per il freddo, e si accorse di non essere più in camera sua – di nuovo. Si trovava in un’arena completamente vuota, a centrocampo, ed era inspiegabilmente investito da un vento forte che gli faceva quasi lacrimare gli occhi. Davanti a lui, sotto il canestro, si ergeva una figura incappucciata, di cui non riusciva a scorgere il volto.
Si avvicinò, guardingo. Il vento fischiava attorno a lui, un tuono rimbombò fragorosamente.

La figura incappucciata si voltò. Il cappuccio ne metteva in ombra i lineamenti, ma Bryant poteva sentire lo sguardo fisso su di lui.

“Tu chi saresti?” chiese Bryant in tono ostile.

La figura incappucciata continuò a non rispondere, ma tese un braccio e indicò un punto dietro di lui.
Bryant si voltò, e si accorse che al posto dell’altra metà del parquet c’era una voragine, di cui non riusciva a vedere il fondo. Imprecò e si allontano dal ciglio dell’abisso.

Voltandosi, si trovò faccia a faccia con la figura incappucciata, che lentamente iniziò a scoprirsi il volto. Bryant spalancò gli occhi, quando capì chi aveva di fronte.

Era proprio Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato.

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Smush Parker eruppe in una risata fragorosa. “Non passi mai la palla. Hai il record di tiri sbagliati. Hai sempre preso troppi tiri” iniziò a salmodiare, come in una litania.

“Hai rovinato la squadra rinnovando a 25 milioni. Hai sempre voluto fare la primadonna. Ti sei fatto più nemici che amici”.

Bryant era paralizzato dalla sorpresa, e iniziò ad indietreggiare verso il precipizio, incalzato da Smush Parker che continuava ad accusarlo con la sua litania.  “Senza O’Neal e Gasol non avresti vinto nulla. I record li hai ottenuti solo perché hai iniziato giovane. Avresti dovuto ritirarti prima”.

Si ritrovò in bilico sul precipizio, mise un piede in fallo e rischiò di cadere. Parker incombeva su di lui.
Potresti solo pulire gli scarpini a Jordan, lui sì che era uno che sapeva vincere” concluse, scagliandosi verso di lui e tentando di gettarlo nell’abisso. Bryant riuscì ad afferrarlo per la tunica e facendo piede perno lo fece precipitare nella voragine al suo posto, osservandolo scomparire alla vista.
Ti avevo già detto, in passato, che non eri degno di parlare con me” gli gridò dietro fieramente.
Sentì però che il pavimento sotto di lui si stava spaccando, e si erano formate diverse crepe. Di colpo il parquet si infranse, e anche lui precipitò nell’abisso con un grido.

***

Bryant si svegliò, madido di sudore, nel suo letto.
Doveva essere stato tutto un folle sogno. Nash che gli diceva che le glorie passate non erano cancellate dalle sconfitte presenti, Shaq che lo invitava ad essere meno pretenzioso con sè stesso e con i compagni. E anche quello stramaledetto Smush Parker che ripeteva tutte le critiche. Ma non era stato tutto inutile, finalmente credeva di aver capito. Ora sapeva esattamente cosa doveva fare.

I suoi compagni avevano appena ordinato gli antipasti, quando entro nel ristorante. Quando lo videro, molti sgranarono gli occhi.
Kobe! Sei venuto alla fine!” lo accolse Lou Williams, andandogli incontro. Kobe sorrise. “Si. Certi amici mi hanno convinto, alla fine”.

“Questa volta mi hai sorpreso, vecchiaccio” gli disse Jordan Clarkson, avvicinandosi a sua volta. “Dai, siediti, tanto abbiamo appena ordinato. Pare che qui abbiano una bresaola D.O.P. che è un capolavoro”.

Kobe li guardò, con un sorriso obliquo. “Ma io non sono venuto per mangiare. Sono venuto per portarvi in palestra. Sessione di allenamento extra oggi”.

Sulla tavola scese un silenzio sbalordito.
MUOVETEVI, LAVATIVI CHE NON SIETE ALTRO, CHE STASERA CI SONO I CLIPPERS. VOLETE VINCERE O NO?” gridò improvvisamente, facendoli scattare dalle sedie.

“Ma Kobe.. È Natale” protestò qualcuno.

È vero, è Natale” rispose Bryant, in tono più sereno. “Il regalo più grande che possa farvi io è cercare di farvi vincere, finché sono ancora un vostro compagno di squadra: provo a fare del mio meglio e a farvi dare il massimo – anche con le cattive talvolta, nonostante possa sembrarvi che non serva a nulla o che comunque vada si sia quasi condannati a perdere. Per quanto possibile, cerco di farvi seguire le mie orme”.

Cercò con lo sguardo Russell, Randle e Clarkson, i giovani della squadra. A fine stagione avrebbe dovuto passare loro il testimone, e desiderava ardentemente che capissero quello che intendeva.
Bisogna sempre dare il massimo, tutti insieme, anche quando le gambe cedono, anche quando si è in netto svantaggio: è questo il trucco. Solo così, quando sarete messi in condizione di giocarvi qualcosa di importante e vi servirà una marcia in più, sarete pronti”.

Bryant notò che qualcuno iniziava ad annuire, e sentì dei mormorii d’assenso. Forse avevano ragione Shaq e Nash, e avrebbe dovuto accontentarsi del passato. Ma lui era Kobe Bryant, non uno qualunque: accontentarsi non era per lui.
Non vi chiedo di vincere. Vi chiedo di provarci, con tutto il vostro spirito. È il regalo più grande che possiate farmi, per Natale”.

Esitò un momento, poi riprese l’abituale espressione determinata.
Quindi alzate il culo e andiamo ad allenarci”.

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Davide Romeo

Aspirante giurista, aspirante playmaker, la classe di Jerry West e il controllo palla di DJ Mbenga.

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