18 Giugno 2013, American Airlines Arena di Miami, Florida.
Gara 6 delle Finals NBA tra Miami Heat e San Antonio Spurs, con i texani in vantaggio 3-2 nella serie e avanti 95-92 con 13 secondi da giocare.
Palla nelle mani di LeBron James, che prova a pareggiarla col tiro da 3.
Sbaglia.
Rimbalzo in attacco di Chris Bosh che svetta sulla distratta difesa degli Spurs.
Bosh vede Ray Allen indietreggiare in angolo, mentre la guardia ha già gli occhi sul canestro.
Allen riceve.
Raccoglie il corpo.
Posiziona i piedi dietro l’arco.
Tira.
Canestro.
Il tutto, in 0.8 decimi di secondo.

La classe non ha età.
Ma quando si tratta di sport, purtroppo ha una fine.
Walter Ray Allen, per tutti più comunemente Ray, in settimana ha annunciato ufficialmente il suo ritiro dal basket. Per molti una non-notizia vista la prolungata assenza dai parquet NBA dopo le Finals perse nel 2014, per altri un ceffone improvviso in pieno volto che va ad aggiungersi ai 3 arrivati pochi mesi fa da Kobe Bryant, Tim Duncan e Kevin Garnett.
Dopo 18 stagioni a livelli altissimi, dopo due anelli NBA e 2973 canestri da 3 punti realizzati, finisce la storia di un campione. Ma Allen non è solo numeri.
Ray Allen è Leggenda.
Una leggenda partita dal basso, come quasi tutte le storie dei più grandi di sempre, concretizzatasi grazie agli sforzi individuali e ad un’adolescenza ricca di insegnamenti. L’obiettivo era lo stesso per tanti suoi compagni, e la vita l’ha vissuta sempre nell’ottica di raggiungere quel traguardo: poter leggere, un giorno, il suo cognome stampato su una divisa NBA, e scriverne la storia.

Photo by Kevin C. Cox
Photo by Kevin C. Cox

Ma cosa c’è dietro quel canestro?

Dietro al canestro di Allen contro gli Spurs ci sono 3 anni di Connecticut e 18 divisi tra Milwaukee, Seattle, Boston e Miami. Ci sono 1300 partite tonde tonde in NBA. Ma soprattutto ci sono testa, mani e gambe. Tre elementi di cui tutti i giocatori sono dotati, ma che nessuno è mai riuscito ad allenare ed a far coincidere contemporaneamente come ha fatto Ray Allen durante tutta la sua carriera.

“I’m always ready to step up and take that shot”.

Tutto curiosamente iniziato per caso, quando a 10 anni era ancora indeciso su quale sport scegliere tra pallacanestro, football, baseball e calcio. Poi la svolta: partita tra bambini alla Edwards Air Force Base, la mamma ce lo porta e si ferma a guardare le azioni del figlio. Intercetti, palle rubate, canestri, passaggi decisivi e quant’altro fosse necessario per far capire a tutti gli spettatori, mamma Flo compresa, che era già il migliore tra tutti i bambini. “Sei stato bravo Ray, hai giocato bene. Sarebbe un peccato se non giocassi a pallacanestro, butteresti via una gran dote naturale. Ma ricorda: allenare il corpo è tanto importante quanto allenare la mente”.
Una prontezza mentale fuori dal comune, la consapevolezza che grazie al suo fisico ed alle sue abilità tecniche, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa in qualsiasi circostanza sul parquet. La capacità di nascere atleta a 360°, saltatore ed attaccante puro, e morire (sportivamente parlando) specialista, uomo designato a risolvere i finali di partita con la sua freddezza ed il suo cinismo.
Ray Allen sarà per sempre ricordato come uno degli uomini-giocatori più intelligenti ad aver mai calcato un campo da pallacanestro. Non tanto per letture del gioco eccelse, quantomeno per trovare sempre la linea di passaggio più pulita possibile. Ma per l’essere sempre in grado di capire quale fosse il suo ruolo in campo, dai primi anni in NBA a quelli conclusivi, dove paradossalmente è stato più decisivo da gregario che da stella dei suoi primi Milwaukee Bucks. E soprattutto, per la sua costante volontà di migliorarsi, già da bambino a 12 anni con tale Phil Pleasant a seguire passo dopo passo i suoi allenamenti fuori dagli orari scolastici, solo per aver visto in quel ragazzino californiano la scintilla che sarebbe poi diventata una tra le stelle più splendenti.

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Nei 3 anni a UConn, sotto la sapiente guida di coach Jim Calhoun, Allen ha imparato cosa vuol dire essere un leader, avere gli occhi dei propri compagni addosso in ogni momento della partita e far capire loro, tramite le parole e le azioni sul campo, quale fosse la via verso il successo. Proprio l’ex coach degli Huskies disse così del suo allievo: “Il giocatore in cui mi rivedo? Ray Allen. Ha una dedizione e una forza di volontà che gli permettono di fare ciò che vuole”.

L’abnegazione con cui il ragazzo nativo di Merced ha sempre affrontato la vita viene dai suoi stessi geni, più precisamente da quelli di mamma Flo e papà Walter Allen, due militari che da sempre hanno vissuto con la strana sensazione di doversi spostare per lavoro ogni 3 anni, lasciando abitudini, conoscenze ed amicizie dei posti che avevano appena acquisito. Due persone che hanno fatto capire al loro piccolo Ray, terzo dei cinque figli, che con le giuste virtù si sarebbe potuto togliere grandi soddisfazioni durante il suo cammino. Insegnamenti che il ragazzo ha preso alla lettera, senza lasciare mai nulla al caso e facendo della determinazione e della perseveranza due mantra della sua carriera da giocatore NBA.
Determinazione è non mollare mai, anche quando a 18 anni la tua fidanzata del liceo ti comunica di aspettare un bambino, e ti crolla il mondo addosso.
Determinazione è gettarsi a capofitto in un’avventura all’apparenza dura come questa, dalla quale ne uscì più forte di prima.
Determinazione è arrendersi di fronte a nulla, ed allenarsi sempre e per ogni situazione, in order to make great things happen.

Robert Deutsch
Robert Deutsch

A questo proposito cito Erik Spoelstra, suo coach ai tempi di Miami: “Un giorno vidi una cosa che ancora oggi mi fa sorridere al solo pensiero. Alla fine di un allenamento il giorno prima di una partita, Allen stava con la schiena a terra sotto il canestro, e quando sentiva il fischio di un mio assistente si rialzava, correva all’indietro verso l’angolo, e in qualche modo posizionava sempre i suoi piedi nello spazio tra l’arco dei 3 punti e la linea di fuori, a pochi centimetri dalle sue scarpe, facendo poi partire il tiro in maniera incredibilmente veloce. Tutto in un solo movimento. Tutto, senza guardare a terra”.
Vi ricorda qualcosa?

If you want to be a great shooter, you have to shoot the same way every time”.

La vita dell’Allen-giocatore era fatta fondamentalmente di partite ed allenamenti. Ogni spicchio di tempo libero lo sfruttava per migliorarsi, per allenare il suo fisico o il suo tiro, o comunque per qualsiasi cosa potesse essergli utile già nella partita seguente, guadagnandosi il rappresentativo nickname di Everyday Ray. Ma qual è stata la strada percorsa da Ray Allen per diventare Ray Allen?
Routine è la parola chiave.
Se Allen non avesse avuto quell’elevato senso di responsabilità che lo ha contraddistinto nella sua carriera, e soprattutto non avesse vissuto di routine, non sarei qui a farvi perdere 5 minuti del vostro tempo per leggere questo pezzo.
La routine del Ray giocatore era semplice ma essenziale, ed unica nel suo genere: prima delle partite, era solito entrare in campo almeno 3 ore prima di tutti gli altri, quando ancora le luci dovevano essere provate, gli hot-dog dei bar all’interno dell’arena erano ancora da scongelare e qualche giocatore doveva ancora prendere le sue cose e partire da casa. Infilata la divisa di allenamento e il tutore al braccio, allacciate le Jordan, palla in mano, chewingum in bocca, qualche assistant coach a rimbalzo e si iniziava a tirare.
A tirare, tirare e tirare ancora.
Sempre, costantemente, lo stesso numero di tiri dalle stesse posizioni.

Abitudinario, meccanico ma efficace. Più di ogni altra astrusa forma di allenamento fatta di macchinari di congelamento, vasche idromassaggio o innovazioni della tecnologia moderna di questo genere.
Abitudinario, anche con l’alimentazione. “Mangio lo stesso cibo, la stessa quantità, ogni giorno. Se vuoi mantenere il tuo corpo in forma ed in grado di fare quello che devi fare, lo devi abituare alle stesse cose ogni giorno, che siano allenamenti o pasti, o qualsiasi altra cosa”.
Una predisposizione alla routine che gli ha permesso di costruirsi una carriera sul tiro, di cambiare il suo modo di giocare nel momento in cui sentì che il corpo non dava più le stesse risposte di prima, ma soprattutto quando capì che, eseguendo alla perfezione un limitato ma essenziale numero di cose, avrebbe potuto mettersi quel tanto agognato anello al dito.

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Nel suo anno da rookie a Milwaukee la percentuale di canestri da 3 punti assistiti era del 77.8%, e la percentuale di punti segnati coi piedi dietro l’arco era il 25.1% dei 13.4 di media. Numeri messi in piedi grazie ad un modo di giocare dinamico, fatto sì di conclusioni pesanti ma anche e soprattutto di 1vs1, palleggio-arresto-tiro fulminanti o azioni individuali che, grazie all’allora esplosività delle sue gambe e alla freschezza del suo fisico, terminavano spesso con schiacciate mirabolanti o conclusioni nel pitturato, molto vicine al ferro. Queste percentuali in ogni stagione giocata da Allen in NBA furono sempre, costantemente, in crescita. Fino ad arrivare al 95.7% di triple provenienti da assist e al 49.6% di punti segnati derivanti da canestri da 3 punti nell’ultima stagione a Miami (Volete sapere dove si posiziona graficamente Ray Allen tra i migliori tiratori di sempre? Fabio Fantoni può darvi una mano qui: http://pantoviz.blogspot.it/2016/11/where-is-ray-allen-ranked-among-all.html).
Frutto di allenamento maniacale, di talento naturale, di un diverso stile di gioco ma anche di… Routine.

When you work on getting better at something, don’t do it half speed”.

Il playmaker chiama lo schema, Allen si posiziona come spesso succede sotto al canestro. L’avversario non lo molla nemmeno per una frazione di secondo. La palla si muove, Allen con lei. Un blocco, due blocchi consecutivi, e con una magia degna di Houdini scompare dalla visuale del difensore. Ricompare con la palla in mano, non si sa bene come, non si sa perché. Jumpshot, retina che si muove.
Se Ray Allen non avesse avuto la rapidità di piedi che l’ha contraddistinto fino all’ultima partita della sua ultima stagione, non staremmo qui a parlare di un giocatore presente sotto diverse voci nel libro dei record NBA. Già, perché prima del tiro e della palla che va dentro al cerchio c’è tutto il momento della preparazione e della costruzione di esso. Finte, continui cambi di direzione e di velocità in nemmeno 5 secondi. Questo è il duro lavoro del tiratore da 3 punti, ruolo che Allen ha impersonificato alla perfezione nei capitoli di Boston e Miami.

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Il ruolo di tiratore specialista gli è stato affibbiato proprio in occasione di quelle due ultime squadre, dato che a Milwaukee prima ed a Seattle poi era il punto di riferimento offensivo della squadra, e ridurlo ad un mero tiratore ne avrebbe dimezzato l’efficacia. E proprio durante la sua permanenza a Seattle capì che avrebbe dovuto cambiare qualcosa per scalare la fatidica montagna ed arrivare all’anello NBA. Un articolo del Vault nel 2005, firmato da Rick Reilly, affermava che Allen fosse uno dei migliori perdenti dell’intera lega. Ray se la legò al dito, e di lì a poco avrebbe fatto di tutto per levarsi questa fastidiosa etichetta di dosso.

Possiamo dire che nella storia ci sono stati un Ray Allen 1.0 ed un Ray Allen 2.0. Il primo, giovane in rampa di lancio pronto a dilaniare le difese avversarie a suon di accelerazioni, grandi gesti atletici e canestri di tutti i tipi; il secondo, quello vincente, il pezzo mancante del puzzle per le due franchigie degli Stati Uniti dell’est per arrivare al Larry O’Brien Trophy: un tiratore cinico che ha saputo fare di necessità virtù, in grado di seminare il panico nella difesa avversaria solo al momento dello smarcamento.

Le ore passate in palestra o sotto al cocente sole della Florida, dove risiede ora con la sua famiglia, allenandosi giorno dopo giorno in ogni singolo aspetto migliorabile del suo corpo o del suo gioco, per diventare uno dei giocatori migliori a palla lontana, capace di percorrere distanze kilometriche in una sola azione offensiva per far impazzire il proprio marcatore, liberarsi della difesa senza mai fermarsi e riuscire a prendersi un tiro pulito. Pulito, come la sua esecuzione. Pulito, come la retina: la maggior parte delle volte, non si muoveva neanche quella.

15 Giugno 2014, AT&T Arena di Alamo, Texas.

Gara 5 delle Finals NBA tra San Antonio Spurs e Miami Heat, coi primi in vantaggio 3-1 nella serie e 98-78 nella partita, a 3:17 dal termine ed ormai tutto già scritto.
Ray Allen subisce fallo, va in lunetta per 2 tiri liberi.
Giro del pallone sul palmo della mano sinistra.
Tre palleggi mentre la chewingum va da destra a sinistra nella sua bocca.
Altro giro della palla.
Respiro.
Tiro.
Canestro.

Photo by Christopher Trotman
Photo by Christopher Trotman

Solita routine per due volte, come spesso gli accadeva nei suoi viaggi in lunetta.
Poi, dopo un minuto circa, il cambio.

Nessuno, forse nemmeno lui stesso, sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo tiro e la sua ultima partita ufficiale NBA. Ma successe tutto talmente in fretta che nessuno ci si soffermò più di tanto, forse perché abbagliati dall’incredibile ed inattesa débacle degli Heat contro gli Spurs.
Prima la comunicazione che avrebbe saltato tutta la stagione 2014/2015 per “riposare e passare del tempo con la mia famiglia”, poi il nulla. E nella serata del 1° Novembre 2016, l’ufficialità.
Dopo record infranti in NCAA ed NBA, dopo aver vissuto e regalato momenti indimenticabili, dopo aver scritto e ri-scritto la storia del basket d’oltreoceano, dopo aver recitato come protagonista in un film (shame on you se non sapete di cosa sto parlando) e dopo averci fatto restare con il fiato sospeso, speranzosi di poter vedere nuovamente tutta quell’eleganza su due piedi…
Ray Allen dice basta.

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Record su record, canestri su canestri, vittorie su vittorie.
Ed un unico sorriso, quello che fin da bambino ha caratterizzato un personaggio sempre disponibile ad ascoltare i consigli di tutti, a volte schivo ma sempre attento e determinato, in grado di imparare anche dagli errori. Un sorriso capace di farti gioire, di farti esultare ma che, se vestiva la maglia sbagliata, era capace di spedirti dritto all’inferno.

In appena 0.8 secondi.

Grazie Jesus.

 

a cura di Eugenio Agostinelli

[disegno in copertina realizzato da Diego Di Nunzio]

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