“Uno dei 10 più grandi giocatori della storia del College Basketball, e il più grande Stronzo di tutti i tempi”

Gene Wojciechowski, ESPN

 

 

Il dipartimento marketing della Nba è da sempre un gradino sopra agli altri. Ha fatto scuola, fin da quando nemmeno quasi esisteva una strategia vera e propria di diffusione del brand e di valorizzazione delle proprie migliori facoltà.

E il Benchmarking è, nella sua sfumatura più eccelsa, il vero cuore del marketing di base, ovvero guardare, osservare, studiare e capire le cose e le strategie messe in atto da altri (concorrenti o di altri settori, non importa) che funzionano e che colpiscono nel segno.

E così nella scorsa stagione la Nba, nel promuovere il gioco NBA2K17, la idea fu di prendere Kobe Bryant nella sua stagione del ritiro, e rivelare ciò che tutti sanno, ovvero che Kobe ha parecchi haters.

Il finale è giusto e il bene trionfa sempre, il politically correct non è violato, con Paul George che dice che lui sarà per sempre Kobe Bryant, ma ciò che tutti ricordano sono coloro che dicono “I HATE KOBE BRYANT”.

E qui il benchmarking della Nba ha pescato bene, e molto.

I HATE CHRISTIAN LAETTNER fu il titolo di uno dei 30 Documentari della serie 30 for 30 prodotti da ESPN, spettacolare lungometraggio che raccoglie le testimonianze di tutti coloro che hanno avuto a che fare con il lungo di Duke a cavallo degli anni novanta, un documentario che fotografa perfettamente la essenza di Christian Laettner, ma che allo stesso tempo sviscera e smentisce alcuni luoghi comuni da sempre riconosciuti nel college basket e nel basket in generale.

Quanti Villains (parola difficile da tradurre, probabilmente “cialtrone”, nel senso più dispregiativo del termine, potrebbe calzare a pennello) abbiamo visto nella storia del college basketball? A decine, ma Christian Laettner era forse il capostipite di questa categoria, ben fotografato nelle parole di Rob Lowe, nel documentario:

“Nel mondo dello sport, probabilmente noi non conosciamo chi odiamo, non sappiamo nulla di lui, ma AMIAMO odiarlo, una chiara espressione di Amore/Odio, e nessuno più di Christian Laettner può rappresentare questo tipo di pratica”.

Era facile odiare Christian Laettner, era lo stereotipo perfetto di giocatore e personaggio da odiare nel basket, soprattutto nel college basket. Christian Laettner è diventato una usanza di odio comune, perchè incarnava tutti gli stereotipi, a partire da quei particolari apparentemente insignificanti, il nome, il colore degli occhi, il colore della pelle, la maglia indossata, l’università frequentata, l’atteggiamento, le parole e le frasi dette e non dette. Un insieme di piccoli dettagli che formavano piano piano un grande catalizzatore di odio ad uso e consumo delle masse.

Duke era storicamente vista come la università dei bianchi del northeast, conservatrice, bigotta, altolocata, dispendiosa e elittaria, mentre North Carolina, e ancora di più Wake Forest e North Carolina State, erano viste come le università dei ragazzi afroamericani del sud, dei ragazzi che venivano dalle campagne agricole dello stato o dai vicini stati, dei figli dei blue collars del South. E Laettner incarnava alla perfezione lo stereotipo di quella tipologia di studente di Duke, anche se già a quel tempo questo tipo di distinzioni nelle università erano anacronistiche (e tanto più lo sono adesso), infatti la quasi totalità dei college americani formano qualsiasi tipo di studente di qualsiasi estrazione sociale e di qualsiasi etnia… basta che paghi profumatamente.

Altro errore di valutazione fatto su Laettner era la sua presunta estrazione sociale. Christian sembrava essere il figlio di papà mantenuto agli studi dalla ricca famiglia del North-east, quando in realtà era uno dei più classici esempi di figlio di blue collars, con il padre stampatore di giornali a Buffalo e la madre insegnante alla scuola inferiore statale. Non un benestante, non un viziato figlio di papà, ma un normalissimo ragazzo dello stato di New York, un classico esempio della lower middle class americana degli anni ’80.

Stereotipi a go-go anche su questo piano, sempre ben orcherstrati dai media, abili a creare mostri, nemici, paladini, bastardi ed eroi all’occorrenza.

Quindi blue collar attitude e la durezza mentale che ne deriva, ben amalgamata ad un atletismo importante, ad un innato talento e ad una straordinaria voglia di vincere, e i presupposti del grande prospetto ci sono tutti. Infatti fin da subito, già dalla seconda media, Christian non teme il confronto nemmeno con i ragazzi delle high school, e dimostra di avere di fronte a sè un futuro cestistico radioso.

Alla Nichols High School di Buffalo (come abbiamo detto una città dura e lavoratrice), Laettner per pagare completamente la retta scolastica, nonostante avesse già una piccola borsa di studio, dovette lavorare, nel tempo libero, aiutando la manutenzione della palestra e della scuola in generale, non gli venne regalato nulla, nonostante fino dal primo anno fosse già la stella della squadra.

Essendo la Nichols una prep school per il college, Laettner era già tenuto d’occhio da parecchi programmi cestistici iuniversitari, e la sua fama andava espandendosi a macchia d’olio.

Il 7 marzo del 1987 la Nichols High sfida la South Park High. South Park High scuola a quasi totalità afroamericana, mentre la Nichols era a quasi totalità bianco caucasica. Ancora una volta subentrano luoghi comuni e qualunquismi, gli afroamericani che vengono dal ghetto dovrebbero essere coloro che spiegano basket ai bianchi altolocati, ma quella volta non fu così. Christian Laettner salì in cattedra e umiliò letteralmente la South Park High, sia difensivamente sia offensivamente. Quella fu la prima volta in cui Laettner si dimostrò per quello che era, un giocatore dominante sul campo capace di farti perdere le staffe con tanti piccoli atteggiamenti strafottenti e provocatori. Tutto questo, sommato al suo essere bianco caucasico altolocato in un campo in cui ormai era sdoganata la credenza popolare che “un nero sa di poter sempre prendere a calci nel culo un bianco su un campo di basket” (tratto dalla biografia di Dennis Rodman “Bad As I Wanna Be”), fece definitivamente perdere le staffe ai giocatori di South Park, che sotto di venti punti e dopo un contatto proibito sotto canestro, scatenarono una rissa che aveva come unico obiettivo quello di prendersi un pezzo di Christian Laettner e portarselo a casa.

Alla fine della bagarre, la partita venne sospesa dagli arbitri e il risultato venne omologato con lo score di quel momento 68-49 per Nichols, e qui arrivò il capolavoro di Laettner, dando inizio al suo “stile”. Dopo le mazzate prese (anche date, ma più prese, visto che i giocatori di South Park si “concentravano” su di lui), si rialzò, e assieme ai compagni uscì trionfante dal campo saltando di gioia alzando al cielo il dito indice, “salutate i numeri uno, anzi, IL numero uno”, sembrava dire rivolgendosi al pubblico.

[qui trovate il documentario completo della ESPN “I hate Christian Laettner“]

Nell’estate del 1988 Laettner venne reclutato da Duke. L’arrivo di Laettner ai Blue Devils e il suo immediato impatto da freshman sulla squadra e sul torneo Ncaa, aiutarono i media a formare e modellare due entità qualunquisticamente contrapposte a livello culturale, ovvero la Duke del freshman bianco nella università bianca, e la Georgetown dell’afroamericano portavoce della comunità nera allenata da un coach afroamericano.

Era Christian Laettner contro Alonzo Mourning.

Photo by Manny Millan /Sports Illustrated/Getty Images

Le parole di Christian Laettner, chiare e disarmanti nella loro semplicità, stemperano, a distanza di anni, quella rivalità costruita ad hoc:

“Solamente perchè era fisicamente più forte e più sviluppato di me, tutti pensavano che lui fosse anche un miglior giocatore di basket”

Il 26 marzo 1989 Duke e Georgetown si incontravano nelle Elite 8 al Meadowlands di East Rutheford, New Jersey, e in quell’occasione Christian Laettner impartì una vera e propria lezione di basket al supponente (come sempre poi fu nel resto della propria carriera) Alonzo Mourning, che si vide uccellato per 40 minuti in entrambe le metà campo dai fondamentali e dalla voglia di vincere di Laettner.

Ma quello fu solo uno dei tanti episodi di quel tipo che accadero a Laettner in quegli anni. Erano gli anni in cui veniva sdoganato l’ “essere afroamericano”, in cui la cultura hip-hop si trasformava da cultura di culto a cultura mainstream, dove hip-hop era ormai diventato sinonimo di pop, e dove essere afroamericani era estremamente “cool”.

Nel film di Steve Miner “Soul Man” (1986), il protagonista Mark Watson (interpretato da Thomas Howell), viziato e fancazzista rampollo di famiglia benestante bianca, si tinge faccia e mani di nero per avere una borsa di studio per soli afroamericani ad Harvard, al grido di “insomma, siamo gli anni ottanta, è l’era di Michael Jackson!”, scoprendo poi sulla propria pelle nera che non era proprio così, e che il retaggio razzista esisteva (e esiste ancora oggi) ancora.

In quegli anni come detto i media ci sguazzavano in queste stupide diatribe, contrapposizioni e suddivisioni. E furono proprio gli anni in cui Christian Laettner fu preso come baluardo di contrapposizione alla nuova emergente fresca ed energetica nuova cultura afroamericana, fu caricato di stereotipi che nulla o poco avevano a che vedere con il basket vero e giocato, e messo di fronte alla ovviamente e per forza di cose dilagante marea di giocatori afro americani che stavano emergendo nel mondo del college basket.

Entrambe le “fazioni” comunque sembravano essere a proprio agio nel ruolo di parti contrapposte, Laettner infatti era un duro vero, e non gli dispiaceva la immagine di “bianco odiato”, mentre dall’altra parte la ondata di afro americani rampanti che volevano prendere a calci le bianche chiappe originarie di Buffalo del numero 32 di Duke.

Così nella Finale NCAA del 1990, TUTTA la black nation cestistica e non, di qualsiasi altro colore fosse la università o la squadra tifata, cominciava a radunarsi, esultando vedendo i Rebels di UNLV, capitanati da Larry Johnson e guidati da Jerry Tarkanian, umiliare 103-73 i Blue Devils di Christian Laettner. Quella fu la prima vittoria di un popolo che si stava creando, un popolo, prevalentemente afro americano, che odiava Christian Laettner e quello che secondo loro rappresentava.

L’anno dopo però all’Hoosiers Dome di Indianapolis, la sfida era ancora una volta tra UNLV e Duke in semifinale, e vide i Blue Devils vincenti 79-77 contro ogni pronostico, con due liberi realizzati da Laettner sul 77 pari. In finale Duke ebbe la meglio 72-65 su Kansas, con Christian Laettner che conquistò così il suo primo Titolo NCAA, da assoluto protagonista.

Anche in quella stagione non mancarono le polemiche, stavolta all’interno dello spogliatoio Blue Devils. Christian Laettner non ha mai nascosto il fatto che amava prendere in giro, fare scherzi e dileggiare i propri compagni, spesso oltrepassando il limite, perpetrando il più classico dei bullismi, come aveva imparato, da vittima, da suo fratello maggiore Chris. Laettner dileggiava continuamente Bobby Hurley, playmaker della squadra e comunque un duro proveniente dai sobborghi di Jersey City, che alla millesima provocazione e al millesimo dileggio, reagì, scatenando una rissa liberatoria con Christian. Si rafforzò così ulteriormente la immagine di un Christian Laettner da odiare, nonostante lui giustificasse il suo comportamento dicendo che l’unico scopo del suo dileggiare era quello di motivare il compagno.

A quanto pare funzionò, perchè la prima persona che Hurley abbracciò dopo la vittoria su Kansas, fu proprio Laettner.

Il 1992 era l’anno da senior a Duke, e fu l’anno di massimo amore per l’odio per Christian Laettner.

Quell’anno infatti c’erano quelli veramente “cool”, i Fab Five di Michigan, quelli che tutti non potevano esimersi dall’amare, tanto spettacolari erano le loro partite e tanto smaglianti erano i loro sorrisi. Lo scandalo che ha successivamente coinvolto Ed Martin, i suoi pagamenti illegali a giocatori di Michigan con soldi riciclati da scommesse, e tutti i titoli e le onorificenze conquistate dai Wolverins sul campo cancellate, era lontanissimo e inconcepibile, a quel tempo.

I Fab Five erano the real sensation in quegli anni, era impossibile resistergli. Ma quell’anno a ostacolare la ascesa di Chris Webber, Jalen Rose, Ray Jackson, Jimmy King e Juwan Howard c’era l’odiato Christian Laettner con i suoi Blue Devils.

Ma quella finale Ncaa contro Michigan il 6 aprile 1992 a Minneapolis, ampiamente vinta da Duke sui Wolverins 71-51 e che consegnò a Laettner il secondo Titolo consecutivo, fu in un qualche modo oscurata da quello che è ancora unanimemente conosciuto come “The Shot”

Il 28 marzo allo Spectrum di Philadelphia Duke affrontava la Kentucky di Rick Pitino nella finale dell’East Regional.

Wildcats avanti 103-102, rimessa Blue Devils, 2.1 secondi alla fine del supplementare, dopo che i primi 40 minuti erano finiti 93 pari.

Rimessa lunga di Grant Hill che pesca Christian Laettner nei pressi della lunetta, palleggio, giro e tiro.

Bum.

Vittoria Duke, in una serata perfetta per Laettner, 31 punti, 7 rimbalzi, 10 su 10 dal campo, e 10 su 10 dalla lunetta per lui.

Le parole postume di Jalen Rose, acerrimo nemico di Laettner a quel tempo, sono chiare: “non mi piace come persona, ma gli porto un grandissimo rispetto per il giocatore che è”.

Molti si sono chiesti il motivo per cui Laettner fu selezionato per il Dream Team di Barcelona 92, al posto di altre superstars come Dominique Wilkins o Isiah Thomas, o di giocatori universitari più dominanti come il giovane Shaquille O’Neal che spaccava tutto a LSU.

Dinamiche interne a parte, vedi la querelle tra Michael Jordan e Isaiah Thomas, una interpretazione poteva essere: in una serata storta tutti insieme di Jordan, Pippen, Bird, Barkey e compagnia bella, potrebbe essermi più utile un fisicaccio dominante e acerbo come Shaquille O’Neal, o un uomo di ghiaccio capace di non sbagliare nulla a 20 anni e di segnare un canestro in diretta nazionale? Questo probabilmente fu il ragionamento di Chuck Daly e del suo staff, al momento di scegliere il dodicesimo da portare in Catalunya.

Nella Nba la carriera di Christian Laettner fu di tutto rispetto, 13 stagioni tra Minnesota, Atlanta, Detroit, Dallas, Washington e Miami, con una media totale di 12.8 punti e 6.7 rimbalzi a partita, una solidissima carriera da power forward dura e tecnica, alla quale forse è mancato un pizzico di voglia di vincere in più. Un paio di serie playoff da protagonista con gli Atlanta Hawks nel 1996 e nel 1997, vittoriosi al primo turno ma poi eliminati al secondo, nel 96 dagli Orlando Magic di Shaquille O’Neal e Penny Hardaway, e nel 97 dai Chicago Bulls in pieno repeat the three-peat. Ottime performances ad ogni livello e con ogni squadra, ma mai una vera chance di giocare per il titolo Nba, mai una vera chance per fare vedere capire e annusare il Christian Laettner che aveva dominato il college basket a cavallo degli anni 80 e 90. Mai una possibilità di mettere un altro “The Shot” stavolta al top stage. Peccato.

In una delle sue ultime stagioni, vi fu un curioso “outing”, forse involontario, da parte di Michael Jordan, a riguardo di Christian Laettner. Con l’eccezione di Gene Banks nei primissimi anni ai Bulls, Michael Jordan, ovviamente un Tar Heel fino al midollo, non ha mai avuto al proprio fianco un giocatore di Duke, e nemmeno mai lo ha voluto. La leggenda vuole che nelle sue ultime stagioni ai Wizards, Jordan volle fortemente nella sua squadra Christian Laettner, nonostante fosse un giocatore con il corpo e la mente irreversibilmente contaminati dal virus del Cameron Indoor, semplicemente perchè lo riteneva un giocatore di una infinita intelligenza cestistica e di durezza mentale superiore, nonostante fosse un Dukie, anzi “IL” Dukie per eccellenza. E aveva ragione.

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