Venerdì pomeriggio, ore 16.30. Avrei da lavorare, ma ho appuntamento telefonico con Mason Rocca. Si è ritirato la settimana scorsa con una partita da vero campione. Nato nella stessa città di Dan Peterson, 2 metri scarsi di sgraziatezza, ganci improbabili ma una signorilità e un’ignoranza da far vedere i sorci verdi a Yao Ming. Come si può non adorarlo?

Ho passato una mezz’oretta al telefono con lui.

 

Ciao Mason, sono Marco Pagliariccio, mi ha dato il tuo numero Carlo. Ti aveva avvertito dell’intervista, sì?

Ah sì, ciao, me l’ha detto stamattina.

Volevo ripercorrere un po’ la tua carriera. Parto con qualche domanda allora.

Ok, vai.

Inizio dalla fine. Quando hai deciso che era ora di ritirarsi?

È stata una decisione che è maturata in un lungo periodo. Non è che mi sono alzato una mattina e ho deciso. Dopo l’infortunio dell’anno scorso alla caviglia a Trieste e dopo gli esami che hanno evidenziato che mi sarei dovuto operare a settembre, mi sono accorto che il mio corpo mi stava mandando un segnale: devi stare attento, Mason. In realtà, però, avevo già parlato dell’eventualità con mia moglie anche prima. Ma non volevo finire la mia carriera con un infortunio. Per cui ho cercato di rimettermi in forma sapendo che c’era sempre la possibilità di non tornare più quello di prima. E invece sono riuscito a tornare in forma, a tornare con la squadra. Ad ogni modo, avevamo in mente già che questa sarebbe stata la mia ultima stagione.

Quindi con la società eri già rimasto d’accordo così?

Sì, ne avevamo parlato già prima dell’intervento. Sapevano che se non fossi riuscito a rimettermi in forma, mi sarei ritirato. La cartilagine era praticamente finita, dopo tanti anni a giocarci sopra. Per cui non era scontato che riuscissi a rientrare. Per questo avevo già anticipato le mie intenzioni. Ma non volevo decidere a gennaio o febbraio, prima volevo arrivare in fondo. 

L’Aurora Jesi ti ha scovato nel 2001 in Iba, una lega minore americana, dove giocavi nei Trenton Shooting Stars. Come hanno fatto?

Un rapporto nato un po’ per caso. L’anno prima, dopo la laurea a Princeton, ero andato a Treviso per la Summer League. Avevo giocato benino e c’era già stato l’interessamento di diverse squadre ma non se n’è fatto nulla subito. Così ho giocato nella Iba per un anno. Ma l’anno dopo qualcuno si è ricordato di me e tra questi c’erano anche Andrea Mazzon e Gigio Gresta, che vennero insieme a visionarmi. Mi parlarono di Jesi e mi convinsero a venire qua. Furono tre anni magnifici, dove ho conosciuto giocatori di grande esperienza come Lupo Rossini e Claudio Pol Bodetto che mi hanno insegnato tantissimo sulla pallacanestro italiana. E poi c’era un bel progetto, una società seria. Il primo anno arrivammo ai quarti, eliminati da Napoli. Il secondo in semifinale. Il terzo anno la Promozione. A Jesi ho messo le basi per la mia carriera. jesi

Princeton è una università famosa sì per gli studi ma anche per il Princeton Offense. È stato un sistema che ti ha aiutato ad adattarti al basket europeo?

Sì, molto! Il Princeton Offense è molto basato sul concetto di “squadra”. Tutti e cinque i giocatori sono uguali, devono saper passare la palla, tirare, palleggiare. E devono esserci sempre le spaziature giuste. E il timing. Concetti che in Europa sono più prevalenti in Europa che in Nba, dove c’è molto più gioco 1vs1 e gli spazi sono più larghi. Qui l’intensità difensiva è più alta, serve molto di più il gioco di squadra. E in questo a Princeton ero già abituato. rocca princeton

Dopo Jesi, sei andato a Napoli e sei diventato il “Sindaco”. Com’è nata la storia di quel soprannome?

Venne fuori il secondo anno, se non sbaglio. Avevamo un bellissimo gruppo e vincemmo la Coppa Italia.I tifosi amavano molto come giocavo e allora Piero Bucchi, scherzando dopo una conferenza stampa, mi soprannominò così. E poi presi pure qualche voto alle elezioni!

Ma quindi è vera pure quella cosa delle elezioni?

Sì vabbè, ma mica mi ero candidato! Qualche tifoso mi ha voluto dimostrare il suo affetto, è stato bello! Coi tifosi a Napoli mi sono trovato alla grande. C’era un gruppo che si chiamava “Gruppo Rock” che ci seguiva dappertutto. Avevo conosciuto alcuni di loro, c’era un bel feeling.

Da Napoli andasti anche in Nazionale, ai Mondiali di Giappone. Penso che non ci sia un singolo tifoso italiano di basket che non si ricordi la sfida tra te e Yao Ming. Avevo le lacrime a guardarti contro di lui!

Era la prima partita ufficiale con la Nazionale maggiore per me. Avevo fatto i Giochi del Mediterraneo, ma era con la Sperimentale. C’erano un sacco di tifosi cinesi e Yao che era un mito. Io partivo dalla panchina, dietro a Marconato. Pensai solo che l’unica cosa da fare era non fargli arrivare la palla. In qualsiasi modo. Quando sono entrato ho cercato di girargli intorno e dargli fastidio come una mosca. Andavo avanti e indietro, avanti e indietro…

Me lo ricordo bene! L’avrai fatto impazzire con tutto quel movimento.

Eh, un po’ l’avrò stancato e sono riuscito a limitarlo. Ma comunque era impressionate, perché era grosso ma aveva i piedi molto veloci. Un avversario così non l’avevo mai marcato. Fu una grande esperienza.

[una grande esperienza come quella alla Prova del Cuoco con Bulleri]

 

Fu lui il più difficile da marcare nella tua carriera?

Onestamente no. Perché con le mie caratteristiche mi trovo abbastanza bene contro avversari più grossi ma più lenti di me, posso usare la mia reattività contro di loro. Invece quando gioco contro avversari rapidi come me perdo un’arma, per cui faccio più fatica.

Qual è stato un giocatore che ti ha messo particolarmente in difficoltà, allora?

Uno su tutti: Matjaz Smodis. Me lo ricordo quando ero a Napoli e lui a Bologna prima e poi quando era al Cska. Che talento! Ma anche Marcus Goree, ho fatto sempre una fatica terribile a marcarlo. Era tosto fisicamente, molto atletico, mi ha sempre messo in difficoltà.

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E la partita che ricordi con più piacere?

Oddio, ce ne sono tante. Ricordo molto bene la partita della promozione di Jesi, quando vincemmo a Bologna contro la Virtus. Fu molto bella anche se non fu molto tirata. E poi la Coppa Italia vinta in finale contro la Virtus Roma di Bodiroga e Hawkins. Quella, invece, fu una tiratissima.

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Tra i giocatori di oggi, in quali ti rivedi di più come caratteristiche?

Mmmmm….

Domanda difficile?

Eh, un po’ sì! Ora non gioca più, ma tra quelli che ho incontrato mi sono rivisto molto in Greg Brunner. Mi somigliava molto

A me viene in mente Kyle Hines, che ne pensi?

Un po’, ma lui è più atletico e saltatore, anche se gioca in una maniera simile alla mia.

[l’atletismo debordante di Mason]

 

Dopo Napoli, Milano. E lì non hai raccolto granché, visto che non vinceste nulla in quegli anni. Ti resta del rammarico per quella esperienza?

Sono stati anni positivi per me. Era la prima esperienza in una squadra di alto livello. A Napoli abbiamo raggiunto grandi risultati, ma non eravamo una squadra di prima fascia. Milano sì, sia per budget che per lunghezza del roster. Ho potuto fare 4 anni di Eurolega, che per me è il campionato più bello di tutti, quasi meglio della Nba.

Con me sfondi una porta aperta su questo. Io impazzisco per l’Eurolega!

È fantastico giocarla. Ogni partita un duello di intensità clamorosa. Mi ritengo fortunato di averla potuta giocare per 4 anni a Milano dopo quello a Napoli.

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Certo che vincere l’Eurolega a Milano era impensabile.

Ovvio. Il rammarico infatti c’è per non essere riusciti a vincere scudetto o Coppa Italia. Erano i nostri obiettivi, purtroppo però c’era sempre Siena superiore a noi… Ma quelle esperienze in Top 16 e finali di serie A varie non le avevo mai provate.

Ti hanno, anzi abbiamo, mi ci metto pure io, preso in giro tutti per come tiravi i tiri liberi. Però negli ultimi due anni hai tirato rispettivamente col 64% e il 72%. Ci hai lavorato sopra?

Sì, moltissimo! Nell’anno di Bologna ho iniziato a lavorarci molto più di prima, perché quando ero a Milano c’era poco tempo per farlo tra partite, viaggi e allenamenti. A Bologna non facevamo le coppe, per cui ci lavorai molto. E pian piano è venuto fuori qualcosa di buono. Qui a Jesi ho continuato e penso che quella di quest’anno sia la miglior percentuale della mia carriera!

Mi ha sorpreso un sacco questa cosa.

Ora ti dico la verità: invecchiando ho capito che avevo più bisogno di segnare i tiri liberi altrimenti non riuscivo a fare punti in altri modi!

E ora? Il tuo futuro è nel basket o ti inventi qualcosa con la laurea in ingegneria?

No no, voglio provare a fare l’allenatore. Ma non voglio subito entrare nel professionismo. L’idea è quella di tornare in America, più che altro per i bambini per dar loro un’esperienza americana. Loro sono nati e cresciuti qui, saranno sempre legati all’Italia. Ma voglio un po’ di stabilità per loro. Per cui allenerò i ragazzini, al massimo quelli del liceo. Basta con spostamenti e viaggi, ne abbiamo fatti tanti per anni. Intanto così faccio esperienza, i bambini crescono e magari più avanti potrei provare esperienze di livello più alto.

In Italia quindi non ti rivedremo più?

Bè qui a Jesi abbiamo una casa che abbiamo costruito con l’idea, un giorno, di tornare qua. Ma sapevamo anche che saremmo tornato in America per i bambini. È importante per la loro crescita.

Mezz’ora che ti rompo. Per me è a posto così, Mason. Volevo dirti una cosa: quella volta contro Yao mi hai fatto gasare da matti.

Ahahah! Sono contento. Ma sei di Milano tu?

No no, abito vicino Montegranaro.

Ah scusa. Sei marchigiano allora. Come me!

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Marco Pagliariccio

Di Sant'Elpidio a Mare (FM), giornalista col tiro dalla media più mortifero del quartiere in cui abita, sogna di chiedere a Spanoulis perché, seguendo il suo esempio, non si fa una ragione della sua calvizie.

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